Da ragazzino, come tutti gli scolari della mia età, leggevo Pinocchio. Il romanzo di Collodi era una lettura d’obbligo nella scuola di un tempo: non solo perché era un classico della letteratura per ragazzi, ma anche per il suo valore educativo. I genitori e i maestri ci ammonivano così a non dire bugie, altrimenti ci sarebbe venuto un naso lungo come quello del burattino. Così diceva la maestra: ed era, ovviamente, una bugia. Ma noi ci credevamo, e resto ancora convinto del valore educativo di questa salutare menzogna.
Più tardi, però, mi sono reso conto che la verità non è cosa che stia a cuore a tutti e che mentire, per ricavarne un profitto o per evitare un danno, è una pratica abbastanza consueta. Ma non è tanto nelle relazioni interpersonali che la menzogna risulta straripante, quanto nella comunicazione di massa. Chi è solito leggere più fonti e confrontare versioni diverse di uno stesso avvenimento può cogliere non di rado leggere variazioni, omissioni e silenzi che inducono a giudizi diversi sullo stesso fatto. Ci sono vari modi di mentire, e un esperto dell’informazione come Sergio Lepri porta questo esempio significativo: l’organo direttivo di un partito decide su un’iniziativa e ciascuno dei membri deve esprimersi con un sì o con un no. I membri del direttivo sono sedici; quattro dicono «sì», quattro dicono «sì» con riserve, quattro «no», quattro sono assenti. A questo punto, ecco due diverse versioni di due diversi giornali: nel primo si legge che i «sì» sono stati soltanto quattro su sedici – il che è senz’altro vero; nel secondo risulta che soltanto quattro su sedici sono stati i «no» – e anche questa versione è ineccepibile. Ma l’amara conclusione sarebbe che lo sprovveduto lettore è indotto a farsi un certo giudizio oppure un giudizio opposto secondo il giornale che gli è capitato fra le mani.
Nella nostra epoca dell’informazione – o, secondo alcuni, della disinformazione – riesce sempre più difficile raggiungere la certezza della verità. Quanti episodi del passato, a distanza di tempo, vengono riletti in una differente versione! Riprendo un esempio da Raymond Aron: «Se alla fine del XIX secolo i settantacinquemila russi deportati dallo zar in Siberia erano stati lo scandalo dell’Europa, lo scandalo dei milioni di sovietici segregati nei gulag a metà del Ventesimo secolo veniva ignorato e rimosso dai giustificazionismi dell’ottimismo storico». Più clamoroso l’esempio delle «fosse di sterminio» in Romania. Durante la rivoluzione rumena ci furono giornali che corressero gli articoli dei loro corrispondenti sul posto perché non parlavano dei cadaveri nelle fosse comuni: corpi mutilati che i giornalisti sul posto non avevano visto, ma che apparivano nei servizi televisivi. Solo più tardi si seppe che le fosse comuni non erano mai state trovate e che quei corpi provenivano da un obitorio. La stampa scritta cedette alla TV: poiché si erano viste le immagini, bisognava che la cronaca ne parlasse. «I media riproducono i media», non la realtà. E quale sarà la verità sul «Rapporto Mueller» a proposito del Russiagate, l’interferenza sovietica sulle elezioni di Trump?
Ultimamente è apparsa nei quotidiani, anche ticinesi, la notizia dell’inchiesta condotta sui falsi dipinti di Modigliani. Anche qui, non c’è nulla di nuovo: Carlo Dossi, nelle Note azzurre, riferisce di Tranquillo Cremona, tormentato da un seccatore che insisteva per avere un suo dipinto, «ma proprio suo»; per liberarsene, il pittore gli rifilò un abbozzo del Conconi (un collega con cui divideva lo studio), glielo firmò e glielo diede. Anche Giovanni Segantini autorizzava Vittore Grubicy a firmare quadri suoi, fissare le quotazioni e datare i quadri come più gli piaceva.
La verità, insomma, si intreccia sempre con il falso; si vive immersi in questo intreccio. Il che mi ricorda una pagina del Don Chisciotte, dove Sancio Panza racconta di due degustatori chiamati a dare la loro opinione su di una botte che avrebbe dovuto contenere un vino particolarmente buono. Comincia il primo: assaggia, ci pensa sopra e, dopo matura riflessione, stabilisce che il vino sarebbe buono, se non fosse per quel leggero sapore di cuoio che vi sentiva. Poi interviene l’altro: assaggia, conferma la bontà del vino, fatto salvo un certo sapore di ferro che lui avvertiva. Quando poi vuotarono la botte, sul fondo apparve una vecchia chiave cui era attaccata una striscia di cuoio. Insomma, per appurare la verità, sempre ambigua, è necessario vuotare il sacco – e anche la botte.