La vacanza in cerca di giustificazioni

/ 28.06.2021
di Luciana Caglio

La luce in fondo al tunnel, per dirla con un luogo comune del momento, si è accesa: ed è la vacanza, abbinata al viaggio oltre frontiera. Per gli svizzeri, come dichiara persino il presidente della Confederazione Guy Parmelin, significa ritrovare il mare, qualcosa, soggiunge, che si era costretti a immaginare al di là delle nostre meravigliose montagne. Il via libera ha avuto un seguito immediato. Negli ultimi giorni, la rete delle relazioni abituali si sta diradando: amici, colleghi, conoscenti, ovviamente vaccinati, sono partiti alla volta della Sardegna, dell’Elba, della Grecia. Tutto come prima, allora? Il rito delle ferie, conquista sociale e diritto democratico inalienabile, continua ad appartenere alle nostre priorità? Compresi gli eccessi dell’overtourism, che avevano reso infrequentabili Venezia, Barcellona, Lucerna, prese d’assalto da cinesi, giapponesi, indiani? Interrogativi tutti aperti, in attesa di conferme o smentite.

In realtà, a prima vista, le vacanze non sembrano più quelle che erano.
Forse, come auspicavano i moralisti di turno, dalla prova della pandemia siamo usciti migliori, comunque diversi. In grado di modificare usi e consumi all’insegna di una saggezza, in cui anche l’ecologia ha la sua parte. Fatto sta che, osservando le strade, le piazze, la spiagge di un Ticino invaso da ospiti provenienti, per lo più da oltre Gottardo, si coglie l’immagine di una folla, in prevalenza di sportivi: scarponcini e zainetto, bastoncini da escursione. Non si tratta soltanto di vestiario, che tuttavia rimane un indizio, ma di comportamenti. La vacanza coincide sempre più spesso con un’impresa volontariamente faticosa. La bici, munita di ruote pesanti, ne è il simbolo. Non soltanto i giovani, ma intere famiglie con prole, hanno raggiunto i nostri laghi, pedalando. «I bambini devono imparare a soffrire un po’ per meritarsi la vacanza» mi spiegava, con fierezza, un papà, mentre aiutava i figli a superare, bici in spalla, il sottopassaggio a gradini che, a Lugano, collega via San Gottardo e via Cantonale. Ma anche gli ospiti arrivati in treno sono, per lo più, muniti di zaini voluminosi, che contengono l’equipaggiamento destinato a un soggiorno autonomo, vestiario ridotto al minimo indispensabile, sacco a pelo e vasellame da pic-nic. Certo, non si deve generalizzare. Per la salvezza di albergatori, ristoratori e proprietari di boutiques, esiste pur sempre la categoria dei turisti che optano per le comodità tradizionali. Rimane, però, un’élite poco rappresentativa. Mentre, a fare tendenza è il turista cosiddetto responsabile, capace di riscattare la vacanza dalla banalità e dagli sprechi dell’era consumista, farne insomma un’esperienza utile.

Missione impossibile: ne è convinto Rainer Moritz, saggista e romanziere tedesco, che, sulla «NZZ», il 17 giugno scorso denunciava il fenomeno «Vacanze esageratamente sopravvalutate». Un titolo, chiaramente controcorrente, che però non metteva sotto accusa la società contemporanea, le forzature pubblicitarie, i voli low cost, e via enumerando le pressioni di cui, oggi, saremmo vittime. In realtà ne siamo complici consapevoli, e da sempre. L’autore cita nomi illustri, a partire da Pascal: «l’essere umano è incapace di rimanere fermo in una stanza». Tutto ciò per spiegare e, in fondo, assolvere il viandante, il conquistatore di ieri e il turista di oggi, che cede alla tentazione di andarsene, attirato da nomi che suonano bene, tipo Samarcanda, Namibia, Coimbra, Santorini. Mete che magari non mantengono le promesse da dépliant, aprendo un capitolo particolare nel vissuto del vacanziere: secondo Rainer Moritz, nei confronti di disagi e delusioni prevale un’istintiva dimenticanza. Raramente, se ne parla al rientro. La vacanza, infatti, rappresenta una scelta individuale di libertà, rispetto al lavoro dipendente e subito. Una prova fallita,da non raccontare.

Non mancano, del resto, i rinunciatari in assoluto. Quelli che dal lavoro non riescono a staccare. Quelli che l’altrove riescono a inventarselo nel tran tran normale. È il privilegio di un’esigua minoranza. «Ulisse resta a casa» raccomandavano gli scrittori torinesi Fruttero e Lucentini, scandalizzati dai turisti che avevano lasciato rifiuti sull’Everest. Si era nel 1985, quando la parola ambientalismo era quasi sconosciuta. Con ciò, un po’ Ulisse siamo tutti quanti, e meno male.