La trappola del luogo comune

/ 19.10.2020
di Paolo Di Stefano

È caduto anche lui nel tranello del luogo comune e ne sono francamente deluso. Uno dei miei scrittori preferiti (6), così imprevedibile e fantasioso, così fine nel raccontare le emozioni e i sentimenti dei suoi personaggi nel tempo, così straordinariamente acuto, complesso e sfumato, rigoroso e ironico. È proprio vero che non bisogna mai meravigliarsi di nulla nella vita. E Mario Vargas Llosa mi ha deluso (3). In Sciabole e utopie, una raccolta di saggi politici e filosofici appena pubblicata da LiberLibri, ci sono pagine molto suggestive (non sono in grado di dire quanto attendibili) sul suo «continente inquieto», il Sudamerica, la cui colpa, secondo lo scrittore peruviano, è quella di rifiutare la realtà per tentare di sostituirla con la finzione: «negare l’esistenza vissuta in nome di un’altra, inventata, affermare la superiorità del sogno sulla vita oggettiva…».

Tutto questo ha generato i santi e gli eroi, oltre che grandiose e stravaganti figure scientifiche e artistiche. Ma bisogna porsi un limite, dice Vargas Llosa: se il rifiuto della realtà contamina la politica e la vita sociale, allora il risultato è «quella catastrofe nella quale sono sfociati tutti i tentativi utopici nella storia del mondo».

Se la sfida all’impossibile ha prodotto capolavori come Don Chisciotte e Guerra e pace, la Cappella Sistina e il Don Giovanni di Mozart, voler modellare la società senza tener conto delle circostanze concrete e dell’hic et nunc della storia può generare (ha generato) disastri colossali. E fin qui d’accordo. Ma poi? È il confronto tra America Latina e «la bovina e quieta» Svizzera che lascia interdetti. Vargas Llosa riprende il famoso pensiero di Orson Welles, contenuto ne Il terzo uomo, secondo cui in Italia per trent’anni sotto i Borgia ci furono guerre, carneficine e terrore ma vennero fuori Leonardo da Vinci, Michelangelo e il Rinascimento; in Svizzera, viceversa, cinquecento anni di quieto vivere e di pace produssero solo l’orologio a cucù.

Già Umberto Eco, nel lontano 1985 aveva pronunciato quella frase suscitando aspre polemiche nell’imminenza di un suo soggiorno a Locarno, dove era annunciato quale ospite del Festival del film. Eco, con la consueta ironia (5+), dovette precisare: 1. che non era farina del suo sacco ma si trattava di una citazione, 2. che l’orologio a cucù è di origine bavarese e non elvetica, 3. che la frase nel film tratto dall’omonimo romanzo di Graham Greene veniva pronunciata non da Welles ma dal personaggio che Welles interpretava, il criminale Harry Lime, persona poco attendibile, 4. che sono innumerevoli le grandi geniali figure della cultura svizzera, da Pestalozzi a Frisch, da Piaget a Orelli (senza precisare se alludeva a Giovanni o a Giorgio o a tutt’e due, o magari a Johann Caspar), da Amiel a Filippini (probabilmente il suo amico Enrico), 5. che in definitiva non esiste un reato di citazione…

La risposta a quest’ultimo punto sarebbe ovvia: certo non sei responsabile del pensiero di qualcun altro, ammesso che non usi la citazione per farla tua ma per prenderne le distanze o per discuterla. Ebbene, Vargas Llosa non solo non ne prende le distanze, ma rincara la dose aggiungendo che gli svizzeri in realtà «hanno prodotto anche la fondue, un piatto sprovvisto di immaginazione ma decoroso e probabilmente nutriente» (5+ alla fondue!). E non finisce qui: «Fatta eccezione per Guglielmo Tell che, oltretutto, non è mai esistito e dovette essere inventato, dubito che ci sia mai stato un altro svizzero che abbia perpetrato quel sistematico rifiuto della realtà che è la più diffusa abitudine latinoamericana». Seguono i nomi di Borges, García Márquez, Neruda, Paz eccetera.

Il passaggio è banale, addirittura infantile: da una parte creatività artistica e minimo sviluppo sociale (fame, arretratezza, disoccupazione, diseguaglianze, violenza); dall’altra una popolazione «piccola e sbadigliante» nel paese più ricco del mondo, «con i più alti livelli di qualità di vita». Che delusione, il mio caro Vargas Llosa. Quanta grossolanità: dunque non conosce Giacometti e Klee, Rousseau e Dürrenmatt, Walser e Glauser, de Rougemont e Starobinski? E neanche immagina che non è tutt’oro quel che luccica nelle banche elvetiche e che in Ticino c’è un discreto tasso di disoccupazione? Che delusione. Peggio che sorprendere il proprio idolo con le dita nel naso!

Caldamente consigliato al mio idolo Vargas Llosa di leggere su «Internazionale» del 20 agosto scorso (ma disponibile liberamente online) un magnifico reportage dello scrittore e giornalista Christian Raimo (5½) nel villaggio italo-svizzero di Rimini: una scuola per l’infanzia, letteralmente inventata nel 1945 dalla trentenne zurighese Margherita Zoebeli (6), visionaria della pedagogia che con un altro svizzero, l’architetto Felix Schwarz, rifiutò la realtà della diseguaglianza e della povertà prodotta dalla guerra e dal fascismo per promuovere creatività e insieme sviluppo sociale.