La torre Jürgensen a Les Brenets

/ 15.04.2019
di Oliver Scharpf

Il cuore di un orologiaio di origine danese è murato, si dice, ai piedi di una torre neogotica in mezzo a una foresta in cima a una collina che sovrasta la zona di Les Brenets. Millequarantaquattro anime sulla sponda destra del Doubs che qui segna il confine tra il Giura neocastellano e la Franca Contea, continuando poi come frontiera naturale per cinquantadue chilometri. Lì, scolpita nella pietra, dovrebbe esserci questa iscrizione: On n’est jamais vaincu lorsqu’on est immortel. Perciò, «a passi lunghi e ben distesi» come diceva il drammaturgo Eduardo De Filippo, di buonora a metà aprile, m’incammino in direzione dell’enigmatica torre.

Dalla stazioncina di Les Brenets – collegata a Le Locle da un tratto ferroviario a scartamento metrico inaugurato nel 1890 che compie poco più di quattro chilometri in sette minuti – la si avvista a malapena, confusa tra gli abeti della stessa altezza. In mezzora, attraverso la maestosa pecceta odorosa, sono su alla torre dell’orologiaio: Jules Frédéric Urban, noto anche solo come Jules II, Jürgensen (1837-1894). Pronipote di Jürgen Jürgensen, il primo della celebre dinastia di orologiai la cui storia inizia nel 1773 a Copenaghen con prologo cinque anni prima, quando carpisce i segreti del grande Houriet, il mago dei cronometri, a Le Locle. Cittadina a vocazione orologiera dove nel 1834 Jules Frédéric Jürgensen (1808-1877) – noto come Jules I e papà di Jules II, immortalato sempre con fez in testa e barbetta da folletto stile Abramo Lincoln – apre una fabbrica di orologi.

La torre merlata che svetta un po’ inquietante qui davanti, invece, nessuno sa bene quando sia stata costruita di preciso; si presume verso il 1870. Lassù in cima guardano giù due finestrelle gemelle ogivali, coronate da un arco della stessa forma tinteggiato color senape. Trovo, sul lato ovest, il presunto loculo dove si legge, tutto attaccato in semicerchio e cesellato a bassorilievo, l’audace alessandrino. «On n’est jamais vaincu lorsqu’on est immortel»: il verso è tratto da Le soir du combat, poema scritto dallo stesso Jules II e pubblicato a Ginevra nel 1871. «Récit d’une infirmière, poème dramatique» è il sottotitolo di questo poema delirante dedicato alla regina del Belgio che ha aiutato i feriti della battaglia di Sedan. Mentre quattro iniziali sono al centro: JFUJ. In mezzo alle due i lunghe di Jules Jürgensen, in piccolo ci sono l’effe e la u. Urban era il nonno, passato alla storia per i cronometri marini. Nel bosco risuona il picchio. L’assonanza tra il meccanismo dietro le quinte di un orologio e il cuore di Jules Frédéric Urban Jürgensen dietro queste mura, non mi molla per un secondo. Anche il sigfridiano «non siamo mai vinti quando siamo immortali» mi segue, per un attimo, ricordandomi non so perché l’insuperabile motto del Liverpool cantato dai tifosi a squarciagola: you never walk alone. Il tempo di girare l’angolo della torre Jürgensen (979 m), alta una dozzina di metri e incomprensibile se non come mausoleo-belvedere.

Mirador funereo che si distanzia un po’ dal genere folies da giardino come tempietti, gloriette, torrette moresche per prendere il tè. Benché non sia lontanissima dalla tenuta qui di un tempo degli Jürgensen conosciuta come Le Châtelard, le dimensioni non sono mica da capricciosa architettura pavillonnaire. Classificata monumento storico nel 1996 dopo anni di oblìo, è stata restaurata a fine anni novanta per l’interessamento di un’associazione che dopo aver ringraziato su una targhetta tutti quelli che hanno sostenuto il restauro, sulla porta in metallo d’entrata stranamente già aperta con chiave dentro il lucchetto che pende, declina ogni responsabilità in caso d’incidente. Spero non sia la trappola di un cacciatore perverso nascosto da qualche parte, in attesa della sua preda umana. Salgo la stretta scala a chiocciola «composta da 66 scalini» come scrive un architetto nella «Nouvelle revue neuchâteloise», trimestrale dell’inverno 1996 tutto dedicato agli Jürgensen. L’ultimo dei quali, figlio unico di Jules II e la moglie Cécile, Jules Philippe Frédéric Jürgensen (1864-1897), poetastro autore di Rayons brisés (1888) con lo pseudonimo di Robert Dyal, muore avvelenato da sé stesso dopo aver tentato di avvelenare la madre e tutta la servitù.

Sessantatré sono gli scalini, c’è lo sconto di tre scalini a vedere le cose dal vero. E la vista è qualcosa da quassù: il Doubs, navigabile turisticamente da tempo per vedere le sue falesie e il suo salto, tra gli spazi della merlatura, serpeggia coreografico. A sud-ovest si abbraccia con lo sguardo il villaggio francese di Villers-le-Lac, mentre a est le abetaie catartiche sono a perdita d’occhio. «Nero blu» le vedeva ammirato Hans Christian Andersen, il famoso favolista danese amico degli Jürgensen, loro ospite a Le Locle e venuto qui da queste parti, pare, tre volte in un trentennio. Inauguro la mia prima thermos da viaggio versandomi una tazza fumante di tè verde al gelsomino. Un rumore giù di sotto, sulla soglia credo, riecheggia nelle scale. Era una volpe, salita su in un minuto circa a salutarmi. E di colpo mi chiedo perché il numero degli scalini, seppur andandoci vicino, sforando di sole tre unità, sfugge dal sistema sessagesimale usato per misurare il tempo.