La torre del tè di Champel

/ 10.04.2023
di Oliver Scharpf

In compagnia di due involtini primavera, trovati prima per caso, per strada, in un posto irreale di nome traiteur Saigon tenuto da una vecchietta di almeno centoventi anni, seduto su una panchina, ammiro ai primi di aprile, la torre del tè di Champel (419 m). Quartiere residenziale di Ginevra dove per un paio di anni ha abitato Louis-Ferdinand Céline e che un amico cileno con cui giocavamo a calcio una vita fa pronunciava ciamppèll. A bocca aperta mi ha lasciato, appena l’ho vista contro il cielo mutevole, la torre neogotica al limite delle falesie. Chiamata un tempo torre Moriaud e oggi solo torre di Champel, viene costruita nel 1877 come torre del tè per gli ospiti dell’assurdo stabilimento idroterapeutico basato sulle acque glaciali dell’Arve che scorre qui sotto. E mentre vado più vicino per raccontarvela come si deve, adesso s’innalza stravagante nel cielo minaccioso-calmante come negli ottocenteschi racconti cupi inglesi a proposito di fantasmi.

Desiderata da David Moriaud (1833-1898), avvocato-imprenditore-dandy-autore di un libro di poesie per gli amici e ideatore folle di Champel-les-Bains, innanzitutto stupisce la sua struttura sofisticata. Attribuita a Charles Ellès (1836-1891), questa bislacca e bellissima torre-rovina alta diciassette metri inizia a pianta quadrata poi diventa ottagonale: il tocco finale è una fine garitta di vedetta innestata in cima. Avvicinandomi, con la colonna sonora dello stridìo straniante dei gabbiani in sottofondo, smarrisco lo sguardo che vaga nel potpourri di mattoni antichi. Un miscuglio sapiente di mattoni recuperati da case ginevrine medievali demolite. «Rovina moderna» destinata a meta–belvedere delle passeggiate dei pazienti dell’hotel Beau-Séjour come si scopre tra le pagine di Le dossier de Raimbaud (1882) di Marc Monnier. Sorprendente romanzo d’amore epistolare sconosciuto (del quale mi vanto di essere uno dei pochissimi lettori contemporanei) scambiato dalla Treccani per un saggio su Rimbaud, svolto tutto nello stabilimento idroterapeutico dove questa torre neogotica panoramica svolge un ruolo principale. Tra lettere alla zia scritte lì, incontri fugaci, sorsi di tè, e teatro di un suicidio scampato. Leitmotiv di tutto il libro, quasi una via di fuga dagli improbabili bagni curativi nelle acque provenienti dal ghiacciaio del Monte Bianco, a proposito dei quali, l’autore, dopo aver passato una vita a Napoli con gite a Ischia, non può non avere un tono scettico-ironico. Mentre uno scrittore più famoso ma forse meno divertente, Guy de Maupassant, su consiglio del filosofo e storico Hippolyte Taine guarito in quaranta giorni, scappa da Divonne-les-Bains per venire qui. E affidarsi al termalismo controcorrente del dottor Glatz, autore di Dyspepsies nerveuses et neurasthénie (1889). Sento lo scrosciare dell’Arve – «con il quale non ho ancora fatto amicizia» scrive Monnier – che forma una cascatella all’altezza dei campi di calcio del Bout du Monde dove giocavo ai tempi con i miei amici e penso che devo aver avuto le fette di salame sugli occhi o la testa tra le nuvole per non notarla, questa torre svettare strana, al di là del fiume. Trovo, timida, la viola mammola. Ai piedi della falsa rovina di castello, di gran moda all’epoca tra gli spiriti romantici. È orientata verso il traiteur Saigon che sembra uscito da un film con scene di fumerie d’oppio. E s’ispira di sicuro alla prima torre-rovina – capolavoro di Sanderson Miller, esperto di follies e pionere del revival gotico – della storia, eretta a Hagley, Worcestershire, 1747.

Registrata ai tempi nel catasto come «torre d’osservazione» e aperta non solo ai passeggiatori termali, oggi una porta metallica chiusa e graffitata ne impedisce l’accesso. Un capitolo chiuso l’andirivieni di ragazzini intrepidi del quartiere che fino agli anni ottanta salivano su in cima con il batticuore. Benché restaurata anni fa, è sostenuta da due pali di ferro e ha diverse finestre orrendamente murate. Recintata da uno steccato di legno tipo giardinetti d’altri tempi, la torre del tè è allietata da alcuni narcisi e dall’edera che si arrampica sui mattoni di molassa lacustre di diverse tonalità. Anche le inaspettate finestre guelfe, giocano il loro ruolo nello stupire. Però, per il reale effetto negotico stordente, bisogna allontanarsi, vederla da un certa distanza. Meglio ancora se in movimento, camminando.