La tecnologia non sempre ci piace

/ 14.11.2016
di Natascha Fioretti

Sicuramente è un mood del momento, ma vi dico che tutta questa iperconnessione e ipercomunicazione ultimamente mi va un po’ stretta. Sbuffo ogni volta che ricevo una notifica del tipo «il tuo amico Orazio ha postato una foto su Instagram, tu non ce l’hai un profilo?», oppure «la tua amica Caterina è su Snapchat, perché tu non ci sei?» e ancora «Elisabetta ti ha aggiunto al gruppo WhatsApp delle casalinghe disperate, confermi?». Ma se uno per motivi suoi decide di non voler comunicare, interagire, rispondere, essere disponibile per una settimana può farlo? O rischia una sanzione per cattiva condotta? E se spegne il telefono, gli amici riusciranno a trovarlo?

Ci sono già le email del lavoro che ci raggiungono ovunque e alle quali con solerzia rispondiamo, tra l’altro abituandoci sempre di più a scrivere per monosillabi, messaggi cifrati, senza alcuna forma di cortesia se non è strettamente necessario e comunque restando nel minore numero di battute possibili neanche volessimo fare concorrenza a Twitter (di cui tra l’altro da mesi si mormora sia in crisi profonda). Se ad esse aggiungiamo tutti i vari social, per stare dietro a tutto dovremmo saltare la pausa pranzo e magari anche le pause caffè di tutta la giornata. E se a volte sentire quel «bip» di notifica che equivale a «qualcuno ti cerca, ti pensa, ti ha scritto» ci gratifica, altre ne faremmo volentieri a meno e ci viene voglia di spegnere il telefono. Se lo facciamo però ci sentiamo in colpa: qualche cataclisma potrebbe accadere proprio in quel momento, tra tanti messaggi potremmo perdere quello importante, e poi, diciamolo, ci sentiamo tagliati fuori dal mondo e da tutti e mentre un senso di ansia ci assale entriamo in una sorta di crisi di astinenza. 

Ecco, se anche voi siete in una fase del silenzio e della solitudine avete tutta la mia solidarietà. E in ogni caso il mio senso di rifiuto in questo momento è molto ampio e in particolare va a toccare una innovazione tecnologica che pensavo fosse ancora parecchio lontana e invece è alle porte. Mi riferisco alle auto senza pilota, in inglese driver-less, che in primo luogo promettono di semplificarci la vita. Ad esempio mentre l’auto viaggia noi possiamo comodamente fare delle riunioni aziendali, oppure tramite un’app alla Supercar di David Hasselhoff, possiamo chiamare la nostra auto e farci venire a prendere sotto l’ufficio anziché andare noi a cercarla (per chi non si ricorda mai dove la lascia) camminando dieci minuti a piedi per raggiungere il parcheggio. 

Ma, e su questo mi ha fatto riflettere un recente comunicato della casa automobilistica Mercedes Benz, oltre ai vantaggi c’è un problema di non poco conto, quello della sicurezza. La lussuosa casa tedesca ha annunciato che in caso di incidente le sue auto senza conducente salveranno chi è seduto nell’abitacolo. Significa che se un bambino sbuca sulla strada all’improvviso l’auto ridurrà la velocità, stringerà le cinture di sicurezza, farà forza sui freni ma non eviterà l’impatto al fine di salvare la vita di chi siede nell’abitacolo. D’altra parte, ragionando in termini di marketing e di vendite, chi comprerebbe un auto che in caso di pericolo mette a rischio la sua vita e quella dei suoi famigliari? 

Lo scenario è a dir poco allarmante e, dice bene Roberto Simanowski, professore in Digital Media Studies alla City University di Hong Kong, nel suo articolo apparso di recente sulla NZZ, «siamo di fronte ad un conflitto etico preoccupante». E il problema non risiede solo nel fatto che sarà un algoritmo a guidare ma nel fatto che una decisione di questa portata venga presa a priori e a tavolino. E poi, si chiede il professore, «Chi li programmerà? Secondo quali criteri gli algoritmi dovrebbero decidere della vita e della morte delle persone? Ci sarà una decisione dell’ONU in materia? E la Mercedes Benz con la sua promessa non cerca forse di ottenere dei vantaggi sulla concorrenza?». 

Non so voi, ma a me piace guidare e voglio continuare a farlo.