La Svizzera che non ti aspetti

/ 16.08.2021
di Orazio Martinetti

Di tanto in tanto gli italiani ci osservano. Uno sguardo oscillante tra il pregiudizio e l’aperta ammirazione, perché ritengono di poter ricavare dalla fucina elvetica una sagomatura per una possibile riconfigurazione istituzionale della Penisola. Vagheggiano un’Italia federale sulla falsariga del congegno messo a punto nei secoli dai Cantoni svizzeri: l’ultimo grande estimatore del sistema è stato Gianfranco Miglio, l’ideologo della Lega ai tempi di Umberto Bossi. Un intellettuale acuto ma dall’aria luciferina, ideatore di teorie tanto audaci quanto azzardate agli occhi degli stessi leghisti, che difatti, dopo averne subito il fascino, lo collocarono nella galleria dei venerati maestri per infine dimenticarlo.

Tuttavia il caso elvetico – il «Sonderfall» – ha attirato l’interesse anche per altri motivi: per la composizione pacifica delle differenze (linguistiche, religiose e sociali), per il rispetto delle minoranze, per il sistema educativo, per la qualità della ricerca scientifica, teorica e applicata, per la cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario. Già nella prima metà dell’Ottocento, il patriota e carbonaro Silvio Pellico espresse meraviglia per i successi di quel piccolo Paese alpino: «Ecco altrove alcune persone che stentano a capirsi; non parlano abitualmente la stessa lingua. Non credereste, che potesse esservi patriottismo fra loro. V’ingannate. Sono svizzeri, questo di cantone italiano, quello di francese, quell’altro di tedesco. L’identità del legame politico che li protegge, supplisce alla mancanza d’una lingua comune, li affeziona, li fa contribuire con generosi sacrifizi al bene d’una patria che non è Nazione».

Seguirono, dopo la costituzione del Regno d’Italia (1861), molte altre attestazioni, alcune benevole, altre sottilmente perfide e interessate. Con l’affermazione del nazionalismo, sfociato nelle imprese coloniali in Africa, scrittori e poeti influenzati dalla predicazione dannunziana si chiesero se non fosse il caso di inglobare nella «grande Italia» anche le popolazioni insubriche delle Alpi meridionali, almeno fino al confine naturale del San Gottardo. Occorreva, insomma, «redimere» questi territori orfani che le vicende storiche avevano staccato dalla madrepatria: fare in modo che potessero ritornare nel loro grembo materno, ossia la civiltà italica. In quest’operazione si distinse la rivista fiorentina «La Voce», la quale – per la penna del suo direttore Giuseppe Prezzolini – nel biennio 1912-1913 si fece promotrice di un vivace dibattito sull’«anima» del Canton Ticino, cui parteciparono anche Francesco Chiesa, Emilio Bontà e Augusto Ugo Tarabori. Insomma, chiedeva Prezzolini ai suoi amici ticinesi, che cosa siete voi veramente, qual è la vostra indole? In fondo non siete né carne né pesce, siete un anfibio ancora sconosciuto alla tassonomia animale… Dovete chiarirvi le idee, giacché la redenzione non potrà che essere opera vostra.

Il Novecento, «il secolo degli estremi» con le sue crisi, i suoi regimi criminali e le sue devastanti guerre, ha spento ogni focolaio irredentistico. Ciò nonostante la Confederazione è rimasta a lungo un animale esotico, indecifrabile, quasi fantastico. Solo negli ultimi decenni è stato possibile diradare le nebbie e favorire un approccio meno superficiale e impreciso, meno zavorrato da stereotipi, non di rado ingenerosi. Chi scrive ricorda il numero speciale della rivista romana di geopolitica «Limes» del 2011 («L’importanza di essere Svizzera»), ma anche iniziative di parte elvetica rivolte al pubblico italofono, come i tredici tomi del Dizionario storico della Svizzera e la collana, curata da Oscar Mazzoleni per l’editore Dadò, le «Sfide della Svizzera».
L’ultimo contributo alla reciproca conoscenza è giunto dall’editrice Iperborea di Milano, con un numero speciale di The Passenger, già segnalato su queste pagine.

Si tratta di un bel quaderno, originale, in cui si affrontano vecchi temi da angolazioni nuove, come il «formidabile esercito svizzero», oppure argomenti ritenuti scabrosi, come il suicidio assistito. Si parla inoltre di miti, di lingue, di frontiere, di cittadinanze accolte o rifiutate. Un’operazione riuscita, che la redazione ha promosso appoggiandosi a studiosi e intellettuali nati o comunque attivi nella Confederazione. Nell’editoriale si dice che la Svizzera ha fatto dell’invisibilità la sua forza, «ma questo incredibile cocktail di contraddizioni glocal lo rende un esperimento politico e culturale troppo interessante per lasciarlo nascosto e misconosciuto proprio nel cuore dell’Europa». Concordiamo. Solo incrementando e incrociando gli sguardi è possibile sollevare i veli e illuminare le varie facce del poliedro elvetico, sia quelle di cui andiamo fieri, sia quelle che abbiamo preferito occultare negli armadi.