«Svizzera senza orientamento? Questo titolo non è una mia maligna invenzione: è l’espressione di un’atmosfera largamente diffusa sia nel nostro paese che all’estero. Ora, alcuni addossano tutte le responsabilità di questa mancanza di orientamento a un Consiglio federale poco energico e a un’Assemblea federale troppo legata a interessi di parte». No, non sono parole tratte da commenti recenti, a margine dei dissapori emersi tra Bruxelles e Berna sulla questione dell’accordo-quadro. Sono riflessioni espresse trent’anni fa da uno dei massimi teologi del XX secolo, Hans Küng, spentosi lo scorso 6 aprile all’età di 93 anni. Autore molto noto anche al pubblico italofono (sono oltre cinquanta i volumi tradotti nella nostra lingua), Küng ebbe modo di osservare con occhio vigile anche lo smarrimento della sua terra di origine, alle prese con lo «spleen» in cui erano precipitate sia la politica che larga parte dell’opinione pubblica prima e dopo il 1991, l’anno del settimo centenario della Confederazione.
Fu in quell’occasione celebrativa che il teologo di Sursee, da tempo insegnante a Tubinga, tenne un discorso al Politecnico di Zurigo in cui all’amore per il suo paese natale associava una diagnosi lucida e scevra di ogni peana. No, la Svizzera non poteva rimanere alla finestra, indifferente alle sorti della Comunità europea e ai progetti che agitavano il vecchio continente; era giunto il tempo di fare i conti sia con il proprio passato (e qui Küng presagiva «profeticamente» le magagne – schedature, esercito segreto P26, fondi ebraici – che sarebbero venute alla luce di lì a poco), sia con gli indirizzi, economici e morali, che dettavano le scelte politiche. Sette erano, agli occhi di Küng, gli imperativi che avrebbero dovuto illuminare il cammino del paese. Primo: leggere criticamente la storia, le sue luci e le sue ombre; secondo: sviluppare un dialogo fra l’élite politica e l’élite intellettuale; terzo: rinnovare le strutture democratiche; quarto: riflettere criticamente sul concetto di neutralità; quinto: contribuire alla costruzione dell’Europa; sesto: partecipare con impegno alla politica mondiale; settimo: prendere nuovamente sul serio i fondamenti etico-religiosi.
«Confesso che non temo tanto una stagnazione economica della Svizzera, quanto piuttosto una stagnazione spirituale». La rinascita morale doveva dunque ripartire dai valori, dall’essere e non dall’avere. E su questa lunghezza d’onda Küng riproponeva le tesi del congresso ecumenico europeo svoltosi a Basilea nel 1989: uguaglianza dei diritti, pluralismo, parità tra i sessi, pace, amore e rispetto della natura. Solo su queste basi la Svizzera avrebbe potuto aprirsi al mondo e partecipare attivamente all’edificazione degli Stati Uniti europei: «oggi l’Europa si trova esattamente al punto in cui si trovava la Svizzera nel 1848: e cioè nella fase di transizione da una libera Confederazione di Stati a un vero e proprio Stato federale!».
Su questi ragionamenti – subito dopo raccolti in volume, disponibile anche in italiano sotto il titolo Verso l’Europa. Considerazioni sul futuro della Svizzera (Giampiero Casagrande editore, 1992) – Küng insisterà anche nelle iniziative successive di più ampio respiro: se ne ritrova l’eco, ad esempio, nel Parlamento delle religioni che si tenne a Chicago nel 1993 incentrato sull’elaborazione di un’etica mondiale («Weltethos»), in cui, in sintonia con la migliore tradizione umanitaria elvetica, i convenuti posero l’accento sulla necessità di impegnarsi a favore di una cultura della non violenza, del rispetto, della giustizia e della pace. Princìpi dai quali Küng non si scosterà mai, fonti ispiratrici e guide morali di tutte le sue opere maggiori: «non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni. Non c’è dialogo tra le religioni senza una ricerca sui fondamenti delle religioni».
Come detto, da quella conferenza sono trascorsi tre decenni, un lasso di tempo che non pare aver rimescolato le coordinate di fondo. Tra la Confederazione e l’Ue i rapporti rimangono freddi e improntati alla diffidenza reciproca, soprattutto in tema di circolazione delle persone, con le relative ricadute sui livelli retributivi e sull’accesso al sistema di protezione sociale. Nessuno sa dire se e quando le trattative riprenderanno, e in quale clima. Resta il fatto che le questioni aperte stentano ad uscire dai cenacoli dei negoziatori: non sono mai diventate oggetto di un ampio dibattito pubblico (e i sondaggi sul grado di conoscenza della posta in gioco lo confermano). La Svizzera – questo il rimprovero che Bruxelles muove alla politica elvetica – non può continuare a oltranza sulla strada della laconicità, se non addirittura del mutismo. Dovrà prima o poi pronunciarsi, formulare proposte nette, inequivocabili, ricordarsi insomma della predizione di Victor Hugo: «La Suisse, dans l’histoire, aura le dernier mot». Certo, chiosava ironicamente Denis de Rougemont, «ma un giorno la Svizzera dovrà pur dirla, questa parola!».
La Svizzera avrà l’ultima parola…
/ 24.05.2021
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti