A meno di nuovi colpi di scena intervenuti dopo la stampa di Azione, l’annunciato incontro di arti marziali miste tra Elon Musk e Marc Zuckerberg non si farà. Peccato, poteva essere la scena di un film di Tarantino, dove il regista prende a caso le tessere dal mosaico del trash che lo circonda e le butta nel frullatore di una narrazione così esagerata che non puoi fare altro che metterti in poltrona e goderti lo spettacolo.
Tutto era nato da una provocazione di Musk che a fine giugno aveva evocato l’organizzazione dello scontro in una location «epica» in Italia. Ma i contorni dell’evento sono rimasti così vaghi che la scorsa settimana Zuckerberg ha perso le staffe: «Se Elon decide di prendere la sfida seriamente, proponendo una data e un luogo, sa dove raggiungermi. Altrimenti, è il momento di andare oltre» ha scritto su Threads, versione testuale di Instagram. Ci sono stati vari altri scambi tra i due e venerdì, gigioneggiando, Musk ha spiegato che l’incontro sarebbe saltato: «Zuckerberg ha rifiutato l’offerta – ha twittato (se di dice ancora così) – perché non è interessato a questo approccio». Pace e amen. Fine di un’assurda leggenda metropolitana estiva.
E così, di tutta la grancassa mediatica delle scorse settimane, non resta che una coda di speculazioni e sacrosanti sfottò. Immaginare due miliardari che si picchiano in gabbia a me fa lo stesso effetto delle partite tra la nazionale di calcio cantanti e le ex glorie del football. Sei bravo a cantare? Fai i concerti. Sei bravo a fare gol? Fai il calciatore. Non è che siccome hai talento col microfono puoi pretendere attenzione anche quando ti metti a palleggiare con un vecchio centravanti di razza. E non è che siccome sei un faraone dell’economia mondiale sei anche una divinità dell’ottagono da combattimento.
Intristisce – come ha osservato Aldo Sofia su «la Regione» – aver visto il governo di Roma genuflesso e galvanizzato dall’idea che la sfida si svolgesse in terra italica, magari all’Arena di Verona o a Pompei: briciole di gloria non per il patrimonio culturale della Penisola, ma per l’eccitazione provinciale di vedere il Belpaese «nobilitato» in quanto sfondo pubblicitario sufficientemente pittoresco per la baruffa.
Che due tra le persone più ricche del pianeta, guru genialoidi nel campo delle nuove tecnologie – il primo è il patron di Tesla, di SpaceX e di X (Twitter); il secondo è il fondatore di Meta (Facebook) e dei suoi remunerativi addentellati – si punzecchino pubblicamente ci sta.
Ma nel mondo reale la retorica della rivalità si gioca sul paragone tra le rispettive offerte, sul messaggio sottinteso: «Il mio prodotto e/o i miei servizi sono meglio dei tuoi». Non sulla prestanza fisica o sulla scazzottata in calzoncini, maglietta elasticizzata e paradenti dei boss dell’azienda. Invece, ridendo e scherzando, alla fine tutte e due hanno alimentato questa storiella da Topolino, questo fumettistico corpo a corpo tra Paperon de’ Paperoni e Rockerduck. Non a caso nei giorni scorsi, riferendosi alla vicenda sul «Corriere della Sera», Beppe Severgnini ha sostenuto che Musk e Zuckerberg «si contendono l’Oscar dell’Infantilismo».
I moltissimi che nel frattempo si sono bevuti questa favola gladiatoria devono aver creduto che il segreto del loro successo consistesse nell’abilità nel fare a botte. Come se fosse logico pensare che uno col portafoglio di quei due abbia automaticamente il fisico di Tyson. E viceversa. Se fosse vero, l’anno prossimo decine di migliaia di pugili, lottatori, atleti d’ogni categoria, ma anche artigiani dagli avambracci nodosi, boscaioli, scaricatori di porto, muratori e gente di fatica in genere scavalcherebbero nella classifica dei miliardari di Forbes sia Musk che Zuckerberg. E a questo punto se lo meriterebbero.