Imponente, camminando sul lungolago, il Montreux Palace si staglia contro lo sfondo di cielo azzurro, nuvole, alture boschive. Stile belle époque, inaugurato nel 1906, Eugène Jost l’architetto. Tende giallo girasole sopra le centinaia di finestre vista lago. Al sesto piano dell’ala est, dal 1961 al 1977, ha vissuto Vladimir Nabokov (1899-1977) con sua moglie Véra. E Véra Nabokov (1902-1991), dopo la morte dello scrittore e lepidotterologo russo naturalizzato americano, è rimasta a vivere lassù in quelle stanze fino alla fine dei suoi giorni, avvenuta un sette aprile.
Un bel primo pomeriggio d’ottobre inoltrato, come un cacciatore di farfalle pronto ad acchiapparne una con il retino, cerco così di immaginare su quale balconcino di preciso, la coppia, simbiotica da quando si sono conosciuti negli anni venti a Berlino, giocava a scacchi. Passione risaputa, oltre alle farfalle, di Nabokov, al punto che al riguardo girava una storia, riproposta in apertura di un articolo a tutta pagina di Irene Bignardi uscito su «la Repubblica» diciannove anni fa e ritrovato l’altro giorno, piegato in sei. Si racconta che Nabokov avesse chiesto capricciosamente di farsi ripiastrellare il bagno in bianco e nero, così da poter studiare, a tempo perso, le composizioni scacchistiche predilette.
Tutta l’aria di una leggenda metropolitana, ma lo scoprirò presto, ho appuntamento alle due con Edmée Romegialli, sorridente e premurosa assistente di direzione che mi accompagna a visitare la suite Nabokov. Oggi libera, è richiesta «soprattutto da una clientela russa» mi dice Edmée sulle scale, mentre andiamo verso l’aile du Cygne. Chiamata così per via dell’ex Hotel du Cygne, accorpato al Palace e risalente al 1837. Anno della morte per duello di Pushkin, poeta russo amato da Nabokov che ha tradotto in inglese e commentato il romanzo in versi Eugene Onegin (1833), lavoro minuzioso uscito in edizione di quattro volumi nel 1964, quando dunque Nabokov viveva e lavorava qui. Al sesto piano, dove scendiamo adesso dall’ascensore. Svoltiamo in un corridoio a sinistra. Tutto il corridoio, le cui porte d’entrata alle stanze sono tra il grigio pastello e il verde pistacchio, era la parte d’hotel dove Nabokov e la moglie Véra – dopo l’enorme successo di Lolita (1955) – avevano scelto di rifugiarsi. Luogo strategico per via della sorella di Nabokov che abitava a Ginevra e il figlio Dmitri a Milano, individuato su consiglio dell’attore Peter Ustinov, regista tra l’altro di Lady L (1965), film con Sophia Loren e Paul Newman ambientato tra queste mura. Sessantacinque si legge sulla porta, aperta ora con carta magnetica.
Ed eccomi allora mettere piede sulla moquette bordò a pois bianchi della suite Nabokov del Palace a Montreux (415 m). La scrivania, innanzitutto, detta l’itinerario. Edmée apre il cassetto sinistro e mi mostra una macchia d’inchiostro. Seppure molto nabokoviana come attrazione, non rimango a bocca aperta per questa macchia d’inchiostro involontariamente floreale o nuvolosa. Perché l’ho già incontrata all’inizio di un reportage di nove anni fa del settimanale francese «L’Express» dove il giornalista sosteneva che «bisognava essere un po’ feticisti per fare cinque ore di treno con lo scopo di osservare una piccola macchia d’inchiostro». Identificandomi non poco, ora, in queste parole, visto che ho fatto, per l’esattezza, quattro ore e cinquanta minuti di treno. Fuori strada, invece, il reporter, quando evoca a sproposito la penna, appoggiata qui dove c’è la macchiolina, e dalla quale si sarebbero originate le due sorelle di Lolita: Ada e Laura. Ada (1969) e L’originale di Laura (2009) – opera postuma e incompiuta destinata alle fiamme secondo le volontà di Nabokov – oltre a Fuoco pallido (1962) e Guarda gli arlecchini! (1974), sono in effetti libri nati qui, a questa scrivania esile di legno chiaro.
Solo che in verità tutte queste opere sono state scritte a matita. Delle «matite non troppo dure, ben appuntite, con la gomma a una estremità» come quelle che si vedono, se si aguzza la vista, su una delle foto in bianco e nero appese alle pareti. Il tutto rigorosamente scritto su schede a righe di cartoncino Bristol formato undici per quindici, per poi essere battuto a macchina da Véra. Unica dedicataria di tutti i suoi libri che ha anche scarrozzato il marito in macchina per l’America – tenendo sempre nel cruscotto la sua browning calibro trentotto – a caccia di lepidotteri. I meravigliosi motel lolitiani sono frutto di quegli amorevoli viaggi. Lemanica è invece la vista dal balconcino di questo grandhotel cinque stelle con duecentotrentasei camere, classificato oggi come bene culturale d’importanza nazionale. È su questo tavolino in ferro battuto che Nabokov e Véra, per sedici anni, amavano giocare a scacchi. Butto un occhio nel bagno e non è a scacchi. Nel viaggio di ritorno, Edmée mi mostra dei dipinti di Marcel de Chollet, appena sotto il soffitto, ispirati dalle favole di Grimm come il principe ranocchio per esempio, raffigurato lì in cima. Mentre incorniciato e sottovetro, bevendo un espresso al bar, un cimelio di Claude Nobs – creatore del Montreux Jazz Festival nel 1967 al quale hanno anche dedicato la strada qui davanti – ci tiene compagnia come una gigantesca falena. È il kimono di Freddie Mercury.