La stupidità artificiale

/ 18.09.2017
di Paolo Di Stefano

L’intelligenza artificiale? No, la Stupidità Artificiale. Lo scienziato americano David Krakauer, che dirige il Santa Fe Institute, sta studiando l’evoluzione della stupidità con qualche risultato già sicuro: «La tecnologia» dice Krakauer (5½) intervistato da Viviana Mazza per «La lettura» del «Corriere della Sera», «uccide l’intelligenza». Mentre le macchine migliorano, noi peggioriamo. Per esempio: per decidere che libro leggere, che film vedere o in quale ristorante andare a mangiare non prendiamo più una decisione ragionevole basata sull’esperienza, ma ci affidiamo a Netflix, ad Amazon, alle app. Finirà che, inserendo in un sistema le nostre aspettative, il nostro status sociale eccetera, sarà una app a consigliarci che cosa votare. Quel che teme Krakauer è un’«erosione» del libero arbitrio: «Mentre il linguaggio o i numeri sono artefatti cognitivi complementari che aumentano le nostre capacità di ragionamento, ci sono artefatti cognitivi competitivi che fanno l’opposto: non amplificano le capacità umane ma le sostituiscono, con un impatto negativo sul nostro cervello».

La ministra italiana dell’Istruzione, Valeria Fedeli (3 di scoraggiamento), non si pone i problemi che si pone Krakauer ed esprime il suo consenso all’uso dello smartphone a scuola: aiuta l’apprendimento. «Gli insegnanti in classe devono coinvolgere e appassionare i ragazzi», aggiunge. Apprezzabile (e non originalissima) dichiarazione di intenti, ma con lo smartphone sarà più facile coinvolgere gli studenti? Non ci credo, anzi è risaputo che il telefonino è uno strumento che accresce la distrazione e moltiplica i comportamenti autistici: viceversa, la scuola dovrebbe (dovrebbe) essere un luogo di scambio, confronto e socialità.

Dunque? Artefatti complementari o sostitutivi? Sarebbe interessante girare la domanda a Krakauer. Il quale sostiene che la stupidità conduce a fare male ciò che il caso farebbe meglio, mentre l’intelligenza compie al meglio ciò che il caso non riesce a portare a termine. Il guaio è che, come osserva Robert Musil, la stupidità da fuori somiglia ingannevolmente all’intelligenza. Secondo Ennio Flaiano, che ne era un esperto impareggiabile, la stupidità si vende moltissimo e ha ridicolizzato il buon senso. Chiedere a certi amministratori pubblici di riflettere bene sulle frasi di Krakauer, di Musil e di Flaiano significa avere fiducia nel loro buon senso e dunque confidare, forse stupidamente, nella loro mancanza di stupidità.

Buon senso sarebbe, per esempio, evitare a scuola l’uso del telefono, favorendo la vecchia scrittura a mano. Stupidità è pensare che ciò che il vecchio sia sempre superato e come tale da abbattere e da sostituire. Viceversa, come insegna uno studio pubblicato un mese fa su Psychology Today, la lentezza della scrittura manuale accelera e approfondisce la capacità di analisi e di apprendimento, accresce lo sviluppo cerebrale oltre a migliorare la qualità dei contenuti. Una recente ricerca dell’Università Bicocca di Milano (svolta in collaborazione con altri centri europei) ha dimostrato che lo scrivere a mano, pur essendo un’acquisizione culturale, comporta una doppia organizzazione ritmica («omotetia» e «isocronia») già presente nell’essere umano sin dalla nascita: una sorta di ritmo naturale, che tra l’altro si rivela essenziale per curare la dislessia. Quanta stupidità ci sarebbe nel rinunciare alle nostre competenze innate per forzarle verso altre forme artificiali per quanto «nuove»?

Un intervento del filologo e critico letterario Claudio Giunta pubblicato sull’ultimo numero del mensile «Il Mulino» (5½ alla grande rivista di cultura e di politica) affronta la crescente difficoltà di scrittura di cui soffrono gli studenti (dalle medie all’università): si scrive molto ma sempre meno si scrive in modo accurato e corretto; si insegna poco a scrivere correttamente anche perché spesso gli stessi insegnanti non sanno che cosa significa saper scrivere bene; la cultura umanistica è sempre meno diffusa e ciò comporta una minore preoccupazione sulla qualità argomentativa. Scrivere bene non serve più a niente o quasi, conclude Giunta: non è più un requisito richiesto dal mondo del lavoro, anche perché i testi hanno per lo più natura volatile essendo sempre meno cartacei e sempre più digitali e dunque frettolosi. Giunta (4½) lo afferma come fosse un dato di fatto al quale sarebbe non solo inutile ma patetico opporsi: un umanista molto pragmatico e disincantato… Gli risponde, sempre sul «Mulino», il linguista Edoardo Lombardi Vallauri (5): anche se fosse vero che la buona scrittura non è più richiesta dal mondo del lavoro, saper scrivere resta pur sempre indispensabile per costruire architetture logico-argomentative anche nel discorso orale. La buona scrittura alimenta semplicemente il ragionamento, il pensiero, in qualunque forma esso si esprima. Resta il dubbio (legittimo) che oggi neanche il pensiero sia un requisito richiesto dal mondo del lavoro.