La strategia del silenzio

/ 22.02.2021
di Paola Peduzzi

Nei tanti libri pubblicati negli ultimi anni sul filone «così muoiono le democrazie» c’è un elemento comune: difficilmente si vedono i carri armati (anche se in Birmania li stiamo vedendo). Molto più facilmente si percepisce il silenzio. Non subito, non in modo netto e preciso, ma lentamente arriva il silenzio del dissenso, dei media, dei colleghi, dei vicini di casa. Nell’est Europa, dove gli esperimenti cosiddetti di democrazia illiberale si sono sviluppati in modo solido, si è intensificato il silenzio. Era inevitabile, perché già nella definizione di «democrazia illiberale» sta l’inganno. Sappiamo fin troppo bene che tra le due parole, la parte più grande e rilevante la esercita la seconda, l’aggettivo «illiberale».

Anche perché lì appresso c’è la Russia, che con Vladimir Putin ha iniziato a teorizzare e praticare questa deriva illiberale che sul lato est del Continente europeo ha una presa molto forte. È sempre stato un territorio in bilico, quest’ultimo. L’Europa ha esercitato la sua attrazione forte in passato, ha governato l’adesione al progetto comunitario e ora che la convivenza e soprattutto i fondi sono navigati, la tentazione illiberale è tornata forte. Anche perché è alimentata con un certo successo – di potere e di sfere di influenza – dalla Russia, la prima ad aver fatto del silenzio interno un programma serrato che ha colpito media, giornalisti e animatori del dissenso anche ricchissimi, come gli oligarchi, ma ridotti al nulla con accuse false e prigionie eterne.

Alexei Navalny, il più grande oppositore di Putin, sta subendo la stessa sorte, nonostante le proteste e i flash mob a forma di cuore. Nonostante la sua storia, tra l’avvelenamento e la prigionia, sia molto vista e molto raccontata fuori dalla Russia. Per il regime Navalny non ha nemmeno un nome: è il paziente di Berlino. Il silenzio comincia così, senza dare il legittimo nome alle cose.

Ai confini est dell’Europa sta accadendo la stessa cosa. In Bielorussia il presidente Alexander Lukashenko pretende di aver vinto elezioni che il suo popolo non gli riconosce. Da sei mesi mette in atto una repressione costante e brutale, silenziando le voci che possono raccontarla una alla volta, con questi furgoncini neri da cui escono le guardie e che diventano carceri ambulanti, strumenti principe della strategia del silenzio. Si può controbattere che in realtà la Bielorussia non ha mai sperimentato la democrazia. Tecnicamente è vero, ma a guardare la forza tranquilla e pacifica delle persone che ogni fine settimana, dal 9 agosto 2019, protesta e appende fiocchetti rossi e bianchi ai cancelli e alle maniglie dei portoni perché non ci si dimentichi loro, ecco a guardarli, questi bielorussi, viene da pensare che la democrazia sanno benissimo cosa sia. Non l’hanno sperimentata ma la cercano in ogni caso.

In Ungheria e Polonia, Paesi alleati che pure hanno una posizione molto differente proprio nei confronti della Russia (aperta e dialogante la prima, ostile la seconda), il silenzio è notizia recente. Non che qualche mese fa i media di opposizione potessero fare chiasso: l’illiberalismo del premier ungherese Viktor Orban e del vicepremier Jaroslaw Kaczynski (la carica è soltanto una formalità, comanda lui) va avanti da molti anni, ma ora il silenzio è ancora più concreto e in sincrono.

Questa settimana è stata silenziata Klubradio, emittente radiofonica indipendente di Budapest che tutti riconoscono per il suo simbolo: una zebra. Già nel 2012 Orban le aveva tolto la licenza di trasmissione, prendendo come scusa delle irregolarità nella consegna di documenti (in pratica la radio non aveva notificato in tempo i contenuti trasmessi). Altrettanto pretestuosa è la motivazione di oggi, così come accade sempre: il trasloco a Vienna dell’Università CEU di George Soros è lì a dimostrarlo. Da qualche giorno la frequenza di Klubradio è muta, ora la redazione lavora online ma sa che è una situazione transitoria.

Negli stessi giorni i media polacchi dell’opposizione sono usciti con una pagina nera con la scritta «Media senza scelta». Il Governo ha presentato un progetto di legge che impone una tassa sulla vendita della pubblicità, non a tutti i media ovviamente, solo a quelli indipendenti. Così è stato organizzato lo sciopero, che dovrebbe ripetersi con frequenza nel tentativo di fermare l’iniziativa liberticida. L’opposizione in Polonia è più vivace e unita rispetto a quella ungherese e così molti commentatori che si occupano di questa regione scrivono dei «vademecum» confrontando le due situazioni, affermando: il silenzio non è un destino.

Questo vale anche negli altri Paesi europei e a Bruxelles, dove si alzano voci di protesta e minacce di procedure di infrazione ma poi prevale l’approccio più accomodante. Le priorità sono altre, come è evidente, ma se alla strategia del silenzio degli illiberali i liberali rispondono con un sostanziale silenzio, un po’ distratto anche, non c’è scampo.