La strage delle donne continua

/ 07.06.2021
di Aldo Cazzullo

Sono scene che ormai accadono per strada. In pieno giorno, davanti a tutti, senza che nessuno intervenga. Lo scorso 29 maggio è successo a Roma, all’uscita da un supermercato. Marito e moglie hanno cominciato a litigare, lui ha estratto un coltello e ha colpito lei a morte. Era una donna di quarant’anni originaria dello Sri Lanka. Tre giorni dopo l’assassino si è impiccato nel carcere di Frosinone con un lenzuolo. So che non è un fenomeno soltanto italiano. Ma in Italia sta assumendo frequenze e dimensioni impressionanti. E lo stesso accade in altri Paesi europei. C’è una questione di sicurezza: per le donne è ancora troppo difficile ottenere protezione e giustizia dalla legge. Ma c’è anche, a monte, una questione culturale.

La violenza contro le donne è innanzitutto una piaga che chiama in causa e impegna gli uomini, anche quelli che violenti non sono, ma che hanno comunque il dovere di isolare e cambiare quelli che lo sono.
Le forze dell’ordine e la magistratura non bastano, anche se la legge del «codice rosso» 2019 (volta a rafforzare le tutele processuali delle vittime di reati violenti, con particolare riferimento ai reati di violenza sessuale e domestica) concede in Italia la giusta priorità alle denunce delle donne molestate. Ma molte donne la denuncia non la fanno neppure, perché pensano che sia inutile. E vanno incontro a un destino che non si sono scelte.

È accaduto, nel febbraio 2021, a una commerciante genovese, Clara: 69 anni, vedova da venti, mamma di Marco, un uomo con la mente di un bimbo. È una storia che mi ha particolarmente colpito. Clara si era scelta un compagno sbagliato, un ex portuale con il vizio del gratta e vinci, e l’aveva lasciato. Lui aveva cominciato a perseguitarla. Una serie di sfregi. Orinava sulla vetrina del suo negozio di scarpe, le rigava la macchina, le rompeva la serratura. Clara si è preparata alla fine: si è pagata il funerale, ha nominato un tutore per il figlio. È andata come lei aveva previsto. Lui è entrato in negozio, l’ha spinta in un angolo, l’ha massacrata con cento coltellate. I cronisti hanno visto soltanto la foto sorridente di Clara nell’ultima fotografia, i fiori davanti alla sua saracinesca abbassata, il suo sangue sul pavimento.

Negli anni scorsi ho letto di troppe storie analoghe. Roma, 8 ottobre 2010. Alla stazione Anagnina della metro scoppia una banale discussione nella coda per i biglietti. Un pugile ventenne, Alessio Burtone, colpisce con un tremendo pugno un’infermiera romena, Maricica Hahaianu. La donna resta a terra nell’indifferenza dei passanti, agonizza a lungo senza soccorso, muore. Il pubblico ministero chiede vent’anni per omicidio preterintenzionale. Burtone ne prende nove. Ridotti a otto in appello. Il 27 febbraio 2013 ottiene gli arresti domiciliari. Dal 26 gennaio 2015, a quattro anni e tre mesi dall’omicidio, è un uomo libero.

Oleg Fedchenko, ucraino, pugile per hobby, 25 anni, ha litigato con la fidanzata. Scende in strada a Milano, in viale Abruzzi, deciso a uccidere la prima donna che incontrerà. Pare la trama di un horror, o una fiaba per spaventare i bambini. Ma è tutto vero. È il 6 agosto 2010, le vie sono quasi deserte, i milanesi in vacanza. Emlou Arvesu, filippina, sta tornando a casa stanca dopo una giornata di lavoro. L’ucraino comincia a colpirla e non smette fino a quando la povera donna muore. Ma, siccome è giudicato incapace di intendere e di volere, o almeno tale era in quel momento, non va in carcere. Vengono chiesti per lui 15 anni di manicomio criminale, ne avrà cinque. Dopo due anni e mezzo sarà estradato in Ucraina e subito liberato. Ha ucciso una donna: non ha fatto un giorno di carcere, non ha pagato un euro di risarcimento. Nessuno si è fermato a Roma, la notte del 29 maggio 2016, per aiutare Sara Di Pietrantonio, 22 anni, aggredita, strangolata, cosparsa di alcol e bruciata dall’ex fidanzato.

Non si è fermato nessuno neppure a Bologna, la notte della primavera 2009 in cui un tunisino, già due volte arrestato e prontamente liberato, violentò una ragazzina di 15 anni. Fino a quando un automobilista, definito dai giornali «un eroe», si decise non a intervenire di persona, ma almeno a chiamare il 113, la polizia di Stato.
A Napoli un passante coraggioso si era fermato per aiutare Emiliana Femiano, 25 anni – una bella ragazza dai tratti mediterranei, ciglia nere, pelle olivastra, denti bianchissimi, sorriso allegro – ferita con dieci coltellate da un corteggiatore respinto. Condannato a 8 anni di carcere, messo ai domiciliari, evaso senza controlli, per prima cosa è andato a cercare Emiliana. E l’ha uccisa.

Lucia Annibali ha fatto imprigionare l’uomo che aveva tentato invano di cancellare la sua grazia e piegare la sua dignità. Sto parlando di Luca Varani, l’ex fidanzato che pianificò l’agguato ingaggiando gli albanesi Altistin Precetaj e Rubin Talaban perché il 16 aprile 2013 aggredissero Lucia con l’acido. La donna ha reagito e parte del suo riscatto è stata la sua elezione in Parlamento. Ma ci sono centinaia di donne come lei che non sono entrate nella memoria nazionale. Il motivo è semplice: sono troppe. E non rappresentano un giallo: si sa già chi è l’assassino. Ogni due giorni in Italia una donna viene uccisa da un uomo che non accetta un rifiuto o un abbandono. E in Spagna i numeri sono analoghi. Nei Paesi anglosassoni va un po’ meglio. Però la questione non è soltanto latina. È universale.