Ci sono parole ed espressioni che marcano un’epoca. Quella in cui siamo ora immersi è segnata, anzi dominata, da «digitalizzazione» e da «sostenibilità». Non c’è intervento statale, piano aziendale, programma di ricerca che non faccia riferimento a questi termini-feticcio, capaci di evocare un futuro «green», dove finalmente sarà possibile riconciliarsi con la natura senza provocare danni irreparabili.
La direzione di marcia era intuibile da tempo, ma pochi credevano che fosse già alle porte, e che divenisse parte della quotidianità di ciascuno di noi. La pandemia ne ha accelerato il cammino, consegnandoci a domicilio scenari che fino a qualche anno fa deliziavano soltanto una ristretta cerchia di visionari. Noi naturalmente speriamo vivamente che il «Recovery Plan» europeo mantenga le promesse e contribuisca a risollevare le stremate economie del continente senza smarrirsi nel dedalo degli sprechi e delle occasioni mancate. Purtroppo non riusciamo a scacciare dalla mente qualche brutto sospetto, sembrandoci esagerata la retorica che accompagna gli annunci dei vari governi e l’enfasi posta su vecchi ministeri riverniciati di verde.
Non sappiamo se nelle università si insegni ancora una materia intitolata «storia dell’economia e delle idee economiche».
L’augurio è che conservi ancora un suo spazio, proprio per evitare le pomposità di certe sortite.
La storia (recente) ci dice che l’allarme per le sorti del nostro ambiente circolava da tempo nei cenacoli e in talune commissioni parlamentari. Già nel 1980 un postulato del Consiglio nazionale chiedeva al governo centrale di allestire un rapporto in cui venissero formulate proposte per favorire una transizione possibilmente indolore da una «crescita prevalentemente quantitativa ad una crescita orientata alla qualità». Il Consiglio federale accolse il principio, inserendolo nelle linee direttive 1987-1991. In buona parte rimase lettera morta, ma qualche suggestione fece breccia nel muro dell’indifferenza, stimolando interventi che segnalavano un cambiamento di vedute nell’affrontare, per esempio, la questione energetica. A questa prima, timida conversione alle istanze del nascente ecologismo non erano estranee analisi e raccomandazioni maturate nel Club di Roma, esposte nel volume I limiti dello sviluppo (1972).
Non era la prima volta che si rifletteva sulla differenza tra crescita e sviluppo, su quantità e qualità. Ma ora si esigeva dai governi che quelle idee non rimanessero confinate nelle cerchie accademiche, ma che filtrassero nei programmi di legislatura. Di qui la parola d’ordine fatta propria dai politici di allora, la crescita qualitativa («Qualitatives Wachstum»), definita nel documento ufficiale come «ogni miglioramento duraturo della qualità di vita, conseguibile attraverso la riduzione delle risorse non rinnovabili o non rigenerabili, accoppiata ad una diminuzione degli agenti nocivi».
Quarant’anni dopo, l’orizzonte è mutato radicalmente, imponendo decisioni rapide e non più differibili. Tuttavia la strada non è in discesa. All’approssimarsi dell’appuntamento con l’urna, ecco che emergono interessi e contrasti, com’è il caso su un oggetto considerato strategico in votazione popolare il prossimo 13 giugno. Alludiamo alla Legge sul CO2. Sono conflitti che rispecchiano filosofie divergenti in tema di intervento pubblico. I contrari sostengono l’idea che lo Stato non debba punire attraverso balzelli chi non si allinea per tempo ai nuovi parametri miranti ad ottenere il calo delle emissioni di gas a effetto serra. Anche un’altra corrente di pensiero ritiene sbagliato prelevare nuove tasse: si dovrebbe invece puntare sull’innovazione tecnologica, attraverso un massiccio ricorso alla leva degli incentivi; solo percorrendo questa via virtuosa sarà possibile raggiungere gli obiettivi auspicati.
È molto probabile che i risultati del voto faranno emergere nuove spaccature (i politologi le chiamano «cleavages») tra gli agglomerati e le aree discoste, tra i quartieri di recente edificazione o riqualificazione e i sobborghi trascurati dalle politiche urbanistiche. Ma il cammino verso «un mondo diverso», come rivendicano, giustamente, le giovani generazioni, non è privo di insidie e anche di contraccolpi indesiderati. I ceti benestanti possono facilmente e gioiosamente cavalcare l’onda verde: auto elettriche, pannelli solari, edifici a basso consumo energetico, domotica, fibra ottica, dispositivi elettronici in ogni stanza. Le classi inferiori devono invece far quadrare i conti a fine mese. La rivolta dei «gilets jaunes» in Francia è scaturita da un aumento del prezzo del carburante che dissanguava soprattutto le regioni escluse dalle reti di trasporto metropolitane. Insomma, non esistono scelte socialmente neutrali. L’ambientalismo non fa eccezione.
La speranza è verde, ma non per tutti
/ 07.06.2021
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti