Ricorderò per sempre la notte dell’8 novembre di quattro anni fa. Nessuno pensava che Donald Trump potesse vincere. Neppure Donald Trump. E lo stesso era accaduto per la Brexit. E per l’exploit dei Cinque Stelle, sia alle politiche del 2013 sia a quelle del 2018.
Da tempo ormai le elezioni si decidono negli ultimi giorni, se non nelle ultime ore; quando si crea una tendenza che i sondaggi non colgono, o addirittura fraintendono. Ad esempio, le ultime rilevazioni in Emilia-Romagna (regionali 2019) e in Toscana (scorso week-end) davano in testa la Lega, che invece ha perso nettamente. Questo succede perché da tempo – in tutto il mondo – il voto è fluido, le appartenenze si sono sgretolate, crescono gli indecisi e l’influenza dei social. Questa volta in Italia il voto ha stabilizzato. Sia quello delle regionali, sia quello sul taglio dei parlamentari. Gli elettori sono spaventati. Un po’ tutti noi europei abbiamo superato la prova più dura della nostra vita, e percepiamo che purtroppo non è finita qui. Un presidente di Regione che sbaglia una mossa può provocare guai e lutti. Pugliesi e campani hanno riconfermato ampiamente due governatori di sinistra – ma apprezzati soprattutto a destra; veneti e liguri hanno fatto lo stesso. In Toscana non c’era un uscente da riconfermare; ma c’era un sistema che, per quanto un po’ arrugginito, ha tenuto. Anche per questo lo sbiadito candidato Eugenio Giani ha prevalso sull’arrembante leghista Susanna Ceccardi, sconfitta anche nella sua cittadina in provincia di Pisa, Cascina (si pronuncia con l’accento sulla prima a).
Non parlerei di sconfitta della destra italiana. E aspetterei a dare Matteo Salvini per finito. Certo, il leader leghista dovrebbe aver capito che dove il suo partito è più debole – nelle Regioni un tempo rosse, ma anche nelle grandi città – non può sperare di vincere con candidature dal profilo ideologico così marcato. Mentre Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno dovuto prendere atto che l’appeal di personaggi del passato, eredi di antichi leader non è irresistibile. Quando la destra troverà candidati civici, in cui anche cattolici e moderati si riconoscano, potrà vincere anche in Toscana o nelle grandi città. Questo voto ha confermato che gli italiani amano scegliere una persona, più che un partito. La lista Zaia ha il triplo di voti della Lega; in Liguria la prima forza è quella di Toti, che nel resto del Paese non esiste. Sarebbe una buona ragione in più per tornare ai collegi uninominali. C’è una legge elettorale che ha funzionato, e porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica. Basterebbe un provvedimento di una riga per ripristinare il Mattarellum. Invece i partiti preparano il ritorno al proporzionale. In particolare quelli della maggioranza, Pd e Cinque Stelle, che preferiscono allearsi dopo il voto; se lo facessero prima, entrambi perderebbero elettori.
La vittoria del Sì al referendum sulla riduzione dei parlamentari (da 945 a 600) era inevitabile, forse anche giusto. Deputati e senatori sono troppi. Ma il problema resterà fino a quando saranno nominati dai capipartito, anziché eletti dai cittadini. È vero che in Francia e nel Regno Unito la Camera bassa (l’unica che conta) ha più o meno i seggi che resteranno in Italia: 575 l’Assemblea Nazionale a Parigi, 650 la Camera dei Comuni a Londra. Ma tutti i deputati hanno vinto un collegio uninominale. Rappresentano una comunità di circa centomila elettori, che conoscono il loro eletto, possono controllarlo, riconfermarlo, oppure mandarlo a casa.
Alla fine, la spallata al governo non è riuscita. Il centrodestra è – secondo la mia sensazione – maggioritario nel Paese, ma politicamente resta debole. Il punto è che il centrodestra si è presentato alle ultime elezioni politiche (marzo 2018) unito, ma subito dopo si è diviso in tre. La Lega ha fatto un governo con i 5 Stelle; Fratelli d’Italia è rimasta fuori ma ha seguito l’esperimento populista con un’attenzione talora ai confini della simpatia; Forza Italia è andata decisamente all’opposizione. Del resto è impossibile essere alleati nello stesso tempo con la Merkel e con Marine Le Pen, dialogare con l’Europa e perseguire il sogno sovranista.
La Lega alle Europee 2019 ha colto un successo clamoroso. Poi la pandemia ha sconvolto il quadro. L’immigrazione, su cui Salvini aveva impostato la sua propaganda digitale e il suo dialogo con gli italiani, è apparso un problema meno importante. La polemica contro l’Europa ha perso mordente dopo l’accordo su Mes e Recovery Fund. La Lega ha dato l’impressione di perdere il bandolo. La gestione della Regione Lombardia non è stata all’altezza dell’emergenza. Salvini ha tentato di cavalcare la rivolta contro la mascherina (poi per fortuna si è fermato). Ora, alle regionali, un sentimento misto tra il sollievo per il passato e la paura per l’avvenire ha indotto gli elettori a riconfermare gli uscenti (con l’eccezione delle Marche). Tuttavia questo non va confuso con una vittoria della maggioranza Pd-5 Stelle, che è ancora tutta da costruire (la vittoria ma, verrebbe da dire, pure l’alleanza). Il vero banco di prova del governo sarà la gestione degli aiuti europei.
La spallata non è riuscita
/ 28.09.2020
di Aldo Cazzullo
di Aldo Cazzullo