A scanso di equivoci, la minaccia non incombe sul Ticino vero e proprio: niente da spartire, quindi, con crisi del bancario e del turismo, temi ricorrenti nell’attualità cantonale. Si tratta, invece, di un guaio di tutt’altro genere, che concerne appunto la «Sonnenstube», termine che definisce, in chiave svizzero-tedesca, la nostra realtà. Nel linguaggio elvetico, con «stanza al sole», non si allude semplicemente a una condizione climatica ma a una vitalità, per non dire spensieratezza, d’impronta mediterranea, di cui il nostro cantone sarebbe l’avamposto. Uno stereotipo ovviamente, dove verità e illusione si confondono. Certo al sud delle Alpi il clima è più mite, ma che poi la solarità appartenga alle caratteristiche della popolazione locale rimane da dimostrare.
Tuttavia, vera o immaginaria, la «Sonnenstube» ha funzionato da incentivo attirando, soprattutto sulle rive del Verbano, del Ceresio, e nelle valli del Locarnese, in ondate successive, ospiti svizzero-tedeschi e germanici, fra i quali anche personaggi illustri, da Hermann Hesse a Otto Dix, a Max Frisch. E, con loro, la schiera, sempre più folta, dei pensionati che decidono di emigrare pur rimanendo in patria: insomma, godere le sollecitazioni dell’italianità e in pari tempo le garanzie dell’accuratezza svizzera.
Dopo decenni, questa tendenza ha subito un arresto. Per la prima volta, si registra un movimento inverso: «Rückzug aus der Sonnenstube», così, il 22 maggio scorso, la «NZZ» titolava un commento dedicato al fenomeno inatteso dei rientri. In verità, di dimensioni modeste: fra il 2011 e il 2017, sono arrivati in Ticino, in media ogni anno, 264 pensionati, mentre 239 sono partiti. Un saldo positivo risicato che però rappresenta una novità, e non ha mancato d’incuriosire, al di qua e al di là del Gottardo. E ripropone l’inesauribile tema della convivenza confederata, che emerge anche da questo caso. Perché anziani, che sembravano pienamente inseriti nell’ambiente locale, se ne vanno? Le motivazioni, a volte, sorprendono. Si torna nel Cantone o nella città d’origine, innanzi tutto per ragioni di salute, convinti di trovare servizi medici e ospedalieri più efficienti di quelli ticinesi. Sempre nell’ambito della sanità, si cita anche il fattore linguistico che ostacola i rapporti con il personale di cura. Infatti l’idioma diverso, un italiano rimasto tabù, figura fra le cause che fanno sentire straniero in patria e inducono al rientro in territorio «Schwyzerdütsch». Traspare, da queste giustificazioni, un rimprovero, neppure velato, che, rivolto al Ticino, ha del grottesco.
È il caso, a questo punto, di rievocare un passato che racconta una storia di segno opposto. Quando, negli anni ’30 e poi nel dopoguerra, il Cantone si trovò ad affrontare il pericolo «intedescamento», provocato dall’incessante afflusso di cittadini germanofoni, ma non soltanto. Vi contribuirono anche i ticinesi: vendendo, o svendendo, case e terreni ai nuovi ospiti, e peccando persino di servilismo. Proverbiale il «Wünschen Sie?» rivolto ai clienti nei bar di Ascona. Si rischiava di «defraudare il Paese della sua identità di piccola patria», per dirla con lo scrittore e polemista Guido Calgari, impegnato nella difesa di un’italianità, allora resa insidiosa dal fascismo. Ma, in pratica, al di là del dibattito culturale, il Ticino si dimostrò capace di gestire la sua condizione di paese di frontiera linguistica. Non ha certo ignorato le esigenze dei suoi ospiti. A Locarno, nel 1908, nasceva il trisettimanale «Die Südschweiz», poi «Tessiner Zeitung», che ancor oggi tira 10’000 copie. A Lugano, negli anni ’20 fu fondata la «Literarische Gesellschaft», di cui mio padre, italiano con il pallino del tedesco, era socio e assiduo frequentatore. Fra i ticinesi che vedevano nei contatti con oltralpe un vantaggio, devo citare Vinicio Salati, il primo direttore di questo settimanale, e Guido Locarnini che aprì al «Corriere del Ticino» una dimensione nazionale.
Infine, si tocca una questione di reciprocità, determinante in Svizzera. Ciò che implica uno sforzo: imparare una lingua, per noi un tedesco spesso ostico. Evitato, invece, da loro: quelli che abbandonano la Sonnenstube, per via di un italiano ignorato.