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La solitudine felice

/ 04.04.2022
di Silvia Vegetti Finzi

Gentile dottoressa,
la leggo sempre eppure mai avrei pensato di scriverle, anche perché non ne avrei avuto tempo. Sino all’anno scorso infatti lavoravo come operatore finanziario e mi dedicavo totalmente alla professione. Soltanto di recente, da quando sono andata in pensione, mi accorgo di essere sola, di non avere amici, di non sapere come ammazzare il tempo. Le giornate stanno diventando lunghe e, sbrigate le faccende quotidiane, mi attendono ore vuote. Ho molti interessi culturali per cui leggo, guardo la Tv, sento musica, vado al cinema, ma sempre da sola.
So che lei consiglia, a chi si trova nella mia situazione, di fare volontariato ma ho già lavorato tanto che non mi sento di ricominciare. Vorrei piuttosto riflettere con lei sulla possibilità di una solitudine felice. Grazie della risposta che mi darà.
/ Sara

Cara Sara,
finora il suo rapporto col tempo è stato quasi esclusivamente negativo. Scrive infatti di non averne mai avuto e ora che è in pensione di non sapere «come ammazzarlo». Evidentemente la dedizione totale alla professione le ha impedito di ascoltare il tempo interno, quello che Sant’Agostino chiama «tensione dell’anima». Sottomettere tutte le proprie risorse a un unico scopo, nel suo caso la professione, impoverisce l’esistenza e la rende vulnerabile. Come sa ogni giocatore d’azzardo, non bisogna mai puntare tutta la posta su un unico numero.

Riducendo l’esistenza a una sola dimensione, la sua identità sessuale non si è mai definita per cui, non a caso, si presenta come un «operatore finanziario» piuttosto che come una «operatrice finanziaria». E le parole non sono mai insignificanti. Se parliamo di un soggetto maschile, nessuno ha mai avuto dubbi che per «diventare uomo» è necessario imparare a stare soli con sé stessi. Per noi invece la solitudine è una conquista recente. Virginia Woolf ne tesse l’elogio nel breve saggio Una stanza tutta per sé del 1929.

Per secoli le donne, escluse dalla vita sociale, si sono affidate ai legami affettivi nella continua paura del disamore e dell’abbandono. In questo senso lei è stata libera e indipendente, anche se ora ne coglie le conseguenze negative. Ma non è mai troppo tardi. Soprattutto per le donne, è sempre possibile convertire l’isolamento in solitudine attiva, dare nuovi indirizzi alla mente, rendersi disponibili a nuovi incontri. Passioni, interessi e curiosità rimangono risorse recuperabili. Dobbiamo tuttavia riconoscere che la modernità non aiuta. Viviamo nella «società degli individui», una comunità dove non si è mai isolati ma sempre soli. Ci sentiamo parti di una folla anonima, dove ciascuno procede per la strada senza guardare chi gli sta vicino, senza chiedersi da dove venga e dove stia andando. Ma le occasioni non mancano e lei, esperta di solitudine, è approdata qui, nella Stanza del dialogo, un luogo di carta stampata in cui, da quindici anni, convergono mille voci per sottoporre problemi, scambiare riflessioni, avanzare richieste di aiuto. L’insieme di questa corrispondenza – da me raccolta nel libro La stanza del dialogo: Riflessioni sul ciclo della vita, editore Casagrande di Bellinzona – costituisce un archivio della vita pubblica e privata del Canton Ticino. Della solitudine, soprattutto nella terza età, abbiamo sempre parlato ma ora il problema si è aggravato perché il lockdown ci ha costretti a chiuderci in una «cella d’isolamento» da cui, anche ora che le porte si sono aperte, è difficile uscire.

La grande psicoanalista francese Françoise Dolto, riflettendo su di sé, sul suo invecchiamento, scrive Una solitudine felice, ove dialoga con le presenze interne, con le figure che animano la sua memoria. Questa risorsa, che apre alla relazione, può diventare una spinta a creare nuovi rapporti nel mondo esterno. Non si tratta di lavorare ancora ma di partecipare, secondo i suoi interessi, a occasioni d’incontro dove la vicinanza si può trasformare in appartenenza.