La settimana breve, come riempirla?

/ 16.05.2022
di Luciana Caglio

Dagli USA arrivano notizie che, spesso, devono allarmare. In questi giorni, non sul piano politico, dove l’attualità riconferma, da che parte sta la democrazia. L’allarme, invece, si giustifica sul piano del costume, delle abitudini, e persino delle mentalità. Cioè quell’American way of life che varca l’Oceano e s’insedia nella vecchia Europa, orgogliosa delle sue tradizioni millenarie, intaccandole. Sono, a volte, le americanate, da cui è giusto difendersi, tipo Cancel Culture, che imperversa nelle università. Non è però il caso nei confronti di un’iniziativa, approvata recentemente dal parlamento della California. Concerne un tema caldo, anche alle nostre latitudini: l’orario di lavoro cosiddetto flessibile, da adattare alle esigenze di impiegati e funzionari, che difendono la propria autonomia. In altre parole, armonizzare attività professionale e attività del tempo libero. Quindi, secondo il modello californiano, l’orario settimanale cala da 40 a 32 ore: in pratica una settimana di quattro giorni. «Se giovedì è già venerdì», titolava la NZZ sabato 7 maggio. Infatti, ed è significativo, la tendenza alla settimana breve si avverte proprio nella capitale dell’efficientismo elvetico.

Non mancano, del resto, gli argomenti a favore di una rivendicazione che, questa volta, non reca l’impronta socialista. Anzi, sfrutta l’argomento produttività: l’orario abbreviato, ovviamente a salario completo, stimola l’impegno individuale a dare il meglio di sé. Va pure detto che, negli USA, il lavoro a tempo parziale era poco diffuso, a danno in particolare delle donne, che non riuscivano a conciliare professione e impegni familiari. In generale, si lavorava, e in molti settori si continua a lavorare più di 44 ore settimanali. Ed è, del resto, indicativo che la proposta della settimana breve sia partita dalla California, auspicata da una categoria privilegiata: i superspecialisti della Silicon Valley. Comunque, la settimana breve rimane un’opzione volontaria. C’è ancora chi preferisce la fatica lavorativa alla fatica del tempo libero.

Qui si apre un altro aspetto, a prima vista paradossale, di quella che rappresentò una conquista sociale: il sabato libero, «all’inglese», come si chiamava allora. In Ticino, risale al 1976, la decisione del Dipartimento della pubblica educazione, diretto da Ugo Sadis. Accolta con favore dalla maggioranza dei cittadini, ma non all’unanimità. Se veniva incontro alle aspettative dei ticinesi, che avevano scoperto i piaceri del weekend in montagna o al mare, d’altro canto non mancò di provocare preoccupazioni d’ordine finanziario e morale. Si crearono comitati ad hoc. Devo citare un ricordo personale: un sabato mattina, si presentò nella redazione di «Azione» un gruppetto di oppositori: docenti, psicologi, sociologi. Denunciavano un problema non campato in aria: «Come occupare quel nuovo tempo libero: sarà un incentivo consumistico, uno spreco di tempo e danaro?».

Moralismi a parte, sta di fatto che il tempo, per definizione libero, in pratica lo è sempre meno. Imponendo regole, addirittura sacrifici, si è istituzionalizzato, è una sorta di dovere che implica ostacoli inevitabili. A cominciare dalle code sulle autostrade. Annullando le illusioni di riposo ritemprante, da dedicare allo svago intelligente, all’esercizio sportivo ragionevole. Insomma, non ricarica ma stressa. Tanto da favorire la «sindrome del lunedì»: si torna al lavoro affaticati e svogliati. Se «lavorare stanca», come scriveva Cesare Pavese, non lavorare stanca ancora di più.

Ora la svolta, anche tecnologica, segna un passaggio epocale: il lavoro, non è più quello che era. E qui, la pandemia ha contribuito a modificarne aspetti, un tempo centrali. A cominciare dal luogo, l’ufficio, l’aula scolastica, l’atelier, in cui si svolgevano attività condivise con colleghi, in orari precisi. Non ultimo, in un clima competitivo. Ciò che favoriva forme d’orgoglio, da primatisti. L’identificazione con il lavoro era, spesso, totale, persino maniacale. Questo filone, che apparteneva alla mia generazione, si sta esaurendo. Fu anche quella che aveva creato il mito stakanovista, ispirato al minatore russo che, nel 1935, aveva estratto 102 tonnellate di carbone in sei ore. Una prova di forza non solo fisica: inventò una nuova tecnica per usare il trapano. La sua immagine comparve sulla copertina di «Time» nel 1976. In tempi di guerra fredda e di culto del lavoro: ormai lontani.