Sembra che la schiavitù non sia poi così brutta. Nell’antichità esisteva la possibilità della schiavitù volontaria. Uno a un certo punto, per qualche ragione non riusciva più ad andare avanti, per un crollo economico, per uno stato di disoccupazione irrisolvibile, o perché impaurito dal mondo, dai soprusi, dalla ingiustizia, o anche solo per uno sconforto psichico grave, e allora si dava come schiavo a un ricco. E il ricco lo usava come voleva. Se sapeva leggere e scrivere lo impiegava come archivista o come contabile; se no come cameriere, come cuoco se sapeva cucinare, o come facchino addetto alla portantina, oppure lo mandava in campagna a zappare, falciare, mungere; se era robusto a spaccare le pietre, a selciare una strada, e così via, gli impieghi potevano essere tantissimi.
Non riceveva stipendio o altre forme di emolumento, ma aveva garantito il vitto e l’alloggio, pur che non commettesse qualche cavolata o fosse eccessivamente scansafatiche. In tal caso veniva punito, come da regolamento, o come al padrone girava. Era schiavo, certo, socialmente al gradino più basso, però era come se avesse un contratto a tempo indeterminato; il padrone lo comandava, ma doveva anche provvedere a lui, prendersi le responsabilità, dirigergli la vita, cioè sobbarcarsi tutti i problemi che un uomo libero incontra. Lo schiavo volontario tornava nella condizione di un bambino e il padrone era una specie di padre. Rari erano i casi di maltrattamenti eccessivi, al padrone non conveniva.
Lo schiavo su per giù era come un cane domestico: il cane cede la sua libertà di animale selvatico, e in compenso ha protezione, vitto e alloggio, con il compito leggero di abbaiare agli intrusi o di far compagnia. Il cane è uno schiavo, però mediamente vive benissimo, anche se non può disporre delle cagne che desidererebbe. In un certo senso oggi è il padrone che è al suo servizio, gli fa da cuoco, lo lava, raccoglie i suoi escrementi. Così pure per lo schiavo antico. Né poteva fuggire come non può fuggire un cane o un bambino; vengono sempre ripresi.
In fondo essere schiavi potrebbe essere un ideale, quello di avere qualcuno che pensa e decide per te. In fondo tante utopie nel corso dei secoli è questo che hanno promesso, evitando la parola schiavo che rimanda a maltrattamenti e sevizie. Pensate a una delle più recenti e fortunate utopie, il cosiddetto comunismo; in fondo prometteva al popolo il ritorno alla puerizia, a uno stato di minorità.
Alcuni capi, che poi sono diventati tantissimi, si caricavano il peso di provvedere a tutti, dare un alloggio, un lavoro, il cibo, un’istruzione, decidere i libri leggibili e quelli vietati, come si fa coi bambini; non permettevano di andare a zonzo o trasferirsi altrove senza permesso, come neanche i bambini possono fare; evitare le cattive compagnie, non dire bugie se no si viene messi in castigo, in modo che il bambino si ravveda. E altrettanto nell’utopia il castigo è a fini rieducativi. In fondo che qualcuno provveda a te è un ideale diffuso, lo si può chiamare schiavitù o ritorno all’infanzia, non c’è una gran differenza, però questi termini espliciti non si possono usare.
Nelle nostre società occidentali c’è chi tiene di più alla libertà, con tutti i rischi e le incognite, con la soddisfazione di essere signore di se stesso, ma anche di poter finire barbone disperato in via di cancellazione. E c’è chi propende per una forma di schiavitù che però chiama stato sociale o socialista a seconda del grado di assistenza. Se l’assistenza è completa, è completa anche la schiavitù, che però è presentata come società ideale. E in effetti lo sarebbe, se chi dirige tutto fosse come un buon padre di famiglia, pieno di tenerezza e perdono per i suoi figli. Però accade spesso che chi vuole dirigere lo faccia per il suo tornaconto e i cittadini siano più simili agli schiavi che ai figli. È differente anche la prospettiva: un figlio è schiavo transitoriamente, fino alla maggiore età. Un cittadino ad assistenza completa è schiavo per sempre e costretto a rimanerlo, almeno fino a che non si ribella accettando il rischio di diventare barbone.
L’antichità greca aveva risolto questo dilemma con la filosofia cinica: non avere bisogni e vivere già come un barbone contento di esserlo, anzi come un cane randagio che non aspira alla domesticazione. Il che però non è facile al giorno d’oggi, perché tra la popolazione non c’è rispetto per la filosofia cinica, e un filosofo cinico che viva sotto un ponte non viene onorato, né le sue parole trascritte e antologizzate in un manuale di storia della filosofia.