La Santa Margherita e il drago di Obersaxen

/ 29.03.2021
di Oliver Scharpf

Nelle mie ricerche sulla Ritscha, la sirena bicaudata grigionese resto di un antico culto delle acque collegato alla dea Reitia, diventata, per un mese, quasi un’idea fissa, è spuntata una bellissima Santa Margherita e il drago a Obersaxen. Dove, notizia di qualche settimana fa, è stato avvistato un lupo sulle piste da sci. Presenza che impreziosisce l’immaginario del mio viaggio. Da Ilanz la posta sale su a fatica per via delle forti nevicate. Chiavi in tasca (si prendono all’ufficio turistico di Meierhof), in quindici passi lunari nella neve fresca sono davanti alla St. Georg-Kapelle. Bianca, seicentesca, campanile in legno stile scandinavo. Già dalla soglia, la Santa Margherita e il drago di Obersaxen (1300 m), dipinta sulla pala d’altare tardogotico in legno di abete, è di una grazia accecante. Accresciuta forse dalla luce nevosa, dall’austerità della chiesetta con la volta a botte in larice, oltre che dall’oro abbondante sullo sfondo: come le icone bizantine.

L’indomita martire, alla quale un primo pomeriggio di metà marzo mi avvicino, avvolta in un manto verde pisello, ha delle belle guance arrossate. Sprigiona un’aria campestre, salubre, quasi alpigiana. Il drago non si trova ai piedi come nell’iconografia tradizionale, è in grembo, quasi come un animale da compagnia. Le mie impressioni a proposito di questa particolare affinità e insolito affetto tra drago e Margherita nell’opera di Ivo Strigel (1430-1516) e la sua bottega di Memmingen, nella Svevia bavarese, trovano una corrispondenza nelle parole di Carola Meier-Seethaler. Pagina ottantadue, Das Gute und das Böse (2004): «Lei lo tiene quasi come un bambino in braccio». Questo equilibrio pacifico tra due esseri di solito contrapposti, è rafforzato dall’analogia di colore tra i due verdi che si fondono in una sola Viriditas, la verdezza terapeutica della mistica Hildegard von Bingen, monaca specialista in piante medicinali. Inoltre si può cogliere la coda del drago che accenna ad attorcigliarsi, come un serpente, al bastone con la croce tenuto da Margherita ricordando così il simbolo farmaceutico per eccellenza: il bastone di Esculapio. Infine il drago fa parte della mitologia meteorologica popolare da sempre. «Il dragun vegn» dicono per esempio a Trun, quando sentono il Ferrera ingrossarsi minacciando un’alluvione. Tutta la forza della natura, allo stesso tempo distruttrice e riparatrice, emana dal delicatissimo dipinto di un luminoso verde vegetazione.

Non per niente esiste un legame tra questa Santa Margherita d’Antiochia (275-290) – martirizzata oltremodo per aver rifiutato le avances di un prefetto – e la dea dell’alpe protagonista della Canzun de Sontga Margriata. Cantata ancora fino a duecento anni fa, nei campi, dalle donne. Raccolta nell’estate 1931 dalla voce di Catharina Gartmann-Casanova, in Val Lumnezia, non lontana da qui, grazie a Christian Caminada. Vescovo di Coira e folclorista a tempo perso, autore di Die verzauberten Täler (1961) dove viene datata tra il 645 e il 753. Racconta di Sontga Margriata «stata sette estati sull’alpe meno quindici giorni» che ruzzolata su un sasso liscio, svela i suoi bei seni, rivelando così la sua vera natura al figlio del pastore: è una «pulzella» travestita da maschio. Da una finestrella socchiusa vedo uno spicchio di paesaggio: stalle, case, nevica ancora. Per non dire il suo segreto Margherita promette mari e monti al pastorello, ma è un po’ duro d’orecchi e così alla fine l’alpe – Grossalp, sopra Tamins, verso il Pass dal Cunclas – viene maledetto e inaridisce. L’erba dei pascoli secca, l’acqua delle sorgenti e fontane prosciuga. Ecco così Sontga Margriata comportarsi come una dea della fertilità che flirta con il fato, divinità dell’alpe simile a certe fate che si ricollega anch’essa all’arcaica Raetia.

Qui davanti c’è dunque la versione cristianizzata di quella dea alpina, spirito selvatico della vegetazione che si ritrova nel verde del manto sintonizzato con il verde ondeggiante più scuro del drago. L’aspetto del drago, con mini unicorno e qualcosa del pescegatto nel muso mansueto, posto tutto in orizzontale dando l’idea di una bilancia, non è repulsivo, provo una certa empatia. Il drago feroce e soccombente dell’iconologia dominante dei santi draghicidi o degli eroi di saghe nordiche, qui è buffo, fiabesco, ha qualcosa di Falcor. «Noi siamo anche il drago» diceva in via di Ripetta a Roma, nell’aula di incisione, il professor Berto, a proposito del tema San Giorgio, il drago e la principessa. L’interiorizzazione del drago è qui davanti agli occhi e l’accettazione sublime del mondo, al di là del bene e del male, lo si legge nello sguardo limpido della santa biondo veneziano con la corona in testa. L’oro sullo sfondo è damascato. Per terra, qualcuno ha portato un’orripilante rosa blu finta.

Butto fuori un occhio dalla porta della chiesetta di San Giorgio che conta sette panche. Nessun lupo all’orizzonte. A stento si vedono le pinete sul versante nord del Mundaun. La nevicata marzolina cancella un po’ il paesaggio sursilvano intorno che vanta microtoponimi da litania: Miraniga, Misanenga, Pilavarda, Giraniga, Zarzana, Mira, Tusa. Tschappina non è lontano. E un tempo Obersaxen era chiamato Supersaxa, da non confondere con il fotoromanzo Supersex. A malapena, meno male, si scorge la seggiovia sciistica risalente al 1952. Un gatto rosso e bianco, la coda alzata con fiducia, mi viene incontro.