Le sale d’attesa delle stazioni sono pressoché sparite. Quasi un necrologio titolava già un reportage in proposito apparso sedici anni fa sulla «Neue Zürcher Zeitung». L’estinzione delle sale d’attesa coincide un po’ con la commercializzazione dell’attesa ferroviaria. Lo spazio vuoto non redditizio è stato soppiantato da hot-dog, bretzel, hamburger, cioccolatini, eccetera. E se per caso è rimasto, come alla stazione di Zurigo per esempio, va prima trovato. Ma è una Warteraum molto inospitale. Come i gabbiotti con panche scomode, metalliche e fredde dei binari ticinesi.
Del resto i tempi cambiano e l’attesa in un viaggio in treno oggi è quasi inesistente: vanno tutti di fretta come mandrie che si specchiano senza tregua nei loro telefonini. Senza più incontri di sguardi sconosciuti né il benché minimo riguardo per il paesaggio attorno. E allora oggi, alla faccia della fretta e in omaggio a una meta apparentemente inutile e insensata, mi metto in viaggio per raggiungere una sala d’attesa viaggiatori. In una mappatura a braccio delle sale d’attesa svizzere che vale la pena di visitare, ricordo quella di Flüelen dove c’è un affresco di Heinrich Danioth che rappresenta una giornata di Föhn, quella ariosa a Basilea nella parte della stazione dopo la dogana per la Francia. Non molto altro rimane, mi sa. Se non quella che ho nel mirino, considerata tempo fa da un perditempo al sole, davanti alla stazione di Biel/Bienne, «la più bella sala d’attesa del mondo». Infatti è tutta meravigliosamente affrescata da Philippe Robert (1881-1930): pittore locale nato in una famiglia di pittori e annegato nell’Aar nei pressi di Büren.
Una donna dai capelli corvini raccolti dietro la nuca, con un lungo vestito violetto, guarda una sorgente di montagna che sfocia in un lago color pervinca. Ai lati, due giganteschi cipressi fuori luogo danno a tutta la scena un’aria stile L’Isola dei morti di Böcklin. Il vestito che le lascia scoperta una spalla è così lungo che giù in fondo, confondendosi con un cespuglio di fiori alpini, dà l’illusione di una coda da sirena. Sembra seduta sopra lo stipite del bel legno chiaro di pero della porta. Accanto, un orologio segna le undici e ventisette di una mattina dopo la metà di marzo. A parte la luce che entra dalle due finestre in alto, l’unica luce è quella fioca di un lampadario moderno e così la stanza risulta un po’ scura. In realtà è un po’ una stanza segreta. Non ci sono cartelli a segnalarla. Se uno non sa della sua l’esistenza, ci passa via senza accorgersene. Provenendo dai binari la trovate alla fine del sottopasso, all’angolo, verso la hall d’entrata, a destra. Se venite invece dalla città un po’ bilingue del canton Berna, eccola invece sulla sinistra.
Adesso diverse persone sono sedute sulle commoventi panche di legno. Guardano il telefonino però, mica gli affreschi. C’è un po’ odore di chiuso in questa specie di cappella ferroviaria. Solo una signora sembra essere venuta qui per qualcosa forse vicino al raccoglimento. «Uno spettacolo quasi religioso in uno dei luoghi più profani, votato alla velocità, al lavoro, alla solitudine o agli incontri, un luogo di passaggio dove restano solo i disperati, gli emarginati» ha scritto Laurent Wolf un paio di anni fa su «Le Temps». L’affresco in direzione dei binari, con la donna malinconica appoggiata con il palmo della mano è intitolato Tempo ed eternità ed è pure scritto, in tedesco e in francese, a caratteri art déco, in un riquadro. Sotto, un testo solo in francese forse un po’ enfatico: «Come un fiume che scorre verso l’oceano, i giorni e le sue ore, l’anno e le stagioni, la vita e le sue età nutrono la feconda eternità». Mentre una scritta minuscola sopra la testolina di un microautoritratto di Philippe Robert ha il suo perché: «Non conosco i vostri piccoli minuti».
Fuori dal tempo dunque, questa sopravvissuta sala d’aspetto di prima classe è oggi rifugio aperto dalle sei di mattina alle dieci di sera. Tra i quattro affreschi di questo ciclo pittorico sul tempo, realizzato nel 1923 in contemporanea alla costruzione della stazione, è quello che mi convince di più. Forse perché è inframmezzato dalle due finestre in alto e la porta, ma anche per le tonalità blu, la donna enigmatica, i fiori sparsi in giro. Tra l’altro Philippe Robert era uno specialista nell’iconografia botanica. Flore Alpine e Feuilles d’Automne (1909) sono dei libri ricercatissimi dai bibliofili e la copertina dell’ultimo è opera di Eugène Grasset. E infine, tra tutti, è quello illuminato meglio. Ma sono certo degni di nota anche gli altri tre che raffigurano la danza delle ore, le stagioni, le età dell’uomo. La donna preoccupata in cerca di pace è ancora lì. È ora di sedersi sulle lunghe panchine della sala d’attesa della stazione di Biel/Bienne (437 m) per rileggere tutto d’un fiato un libro che ho tanto amato di John Fante dal titolo-mantra: Aspetta primavera, Bandini.