La ruspa, la cappella, la memoria

/ 19.03.2018
di Orazio Martinetti

Un braccio meccanico che si protende come un tentacolo, un artiglio che si posa sul colmo e infine uno sbuffo di polvere: la decisione di abbattere una cappelletta nel comune di Gordola per far posto a un condominio ha giustamente indignato la popolazione. I responsabili di quel gesto inconsulto dovranno rispondere dei danni e provvedere alla ricostruzione. Bene. Ma non è questo il punto. L’atto è un segno dei tempi, l’immagine plastica di una furia iconoclastica che non conosce più ostacoli o remore. Per i signori delle ruspe anche le testimonianze della devozione popolare sono ormai solo un ingombro sulla via luminosa del progresso. Nelle nostre città e nei nostri borghi poco è rimasto in piedi del passato; chiese, camposanti, cappelle sono le ultime vestigia ancora visibili, spazi peraltro circondati da fabbricati d’ogni foggia e stile, fungaie nate sull’onda del boom edilizio.

Ci sarà da qualche parte un limite a questa progressione, a questa marea di cemento ed asfalto che tutto invade e livella? Fino a qualche anno fa, chi osava sollevare dubbi sull’eccessivo consumo di suolo non trovava ascolto, era il solito ecologista, sinonimo di conservatore e nemico della rendita immobiliare. Ora, di fronte a tanti scempi, a tante offese, la sensibilità per le sorti del nostro habitat è un po’ migliorata, anche se il richiamo del mattone ancora seduce autorità pubbliche e promotori privati, categorie che volentieri cooperano per edificare ad oltranza, possibilmente su terreni vergini, aree prima destinate all’agricoltura, e poi si vedrà.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Gli specialisti chiamano questo fenomeno «città-diffusa», insieme di manufatti disseminati, collegati tra loro da una rete capillare di trasporti pubblici. Ogni confine svanisce, per lasciare il posto ad una macchia in continua espansione. Città-diffusa che da noi ha preso il nome di città-Ticino, piccola Los Angeles cresciuta ai piedi delle Alpi.

La strada è dunque segnata. Ma questo cantone così ridisegnato e riempito sarà anche un cantone in cui sarà ancora piacevole vivere? Purtroppo i segnali non sono incoraggianti, come l’episodio di Gordola ha dimostrato.

Piero Bianconi era pessimista. Lo era già negli anni 80 del secolo scorso. Consiglierei ai lettori di riprendere in mano qualche sua pubblicazione. Per esempio Ticino ieri e oggi, volume del 1982 edito da Dadò che accosta pagina dopo pagina gli stessi scorci colti in momenti diversi. La fotografia riportata sul risvolto di copertina mostra uno sconsolato Bianconi con le mani nei capelli, impegnato ad osservare il sinistro traliccio di una gru. E poi, subito dopo, il solito, enorme cucchiaio intento a scavare, spostare, ammucchiare terra e calcinacci, porte e finestre scardinate. Ne esce un confronto impietoso, che genera tristezza, la visione di «una veloce degradazione dello sfortunato nostro paese, svenduto e tradito da una parte (la nostra) e sempre più invaso e deturpato (dall’altra)».

Non è questione di nostalgia o di altro sentimento rivolto al passato, quando il mondo ancora appariva in pace con se stesso. Si tratta di misurare il venir meno di una coscienza storica, che è, inevitabilmente, anche coscienza dei luoghi e del patrimonio materiale. È la storia che i nostri antenati ci hanno consegnato incorporandola nelle opere architettoniche, ville, palazzi e oratori magari costruiti con i risparmi accumulati negli anni dell’emigrazione. È il passato che rivive nelle pietre squadrate, nelle travi, nei coppi; è l’estro, è l’inventiva che pittori e decoratori hanno riversato negli affreschi. Scriveva Virgilio Gilardoni nel 1964 inaugurando la sezione dei costumi tradizionali nel castello di Sasso Corbaro: «Abbiamo bisogno, oggi più che mai, di sentire che sotto e dietro di noi c’è pure una Storia, e che la nostra vita, il nostro modo di pensare, di agire, di sentire, che le nostre virtù e i nostri difetti, hanno profonde radici, nei secoli, che vogliamo conoscere».

Ecco, la conoscenza: abbattere una cappella votiva equivale a demolire la memoria storica e dunque una parte di noi, della comunità in cui viviamo. È qualcosa che scompare e che non tornerà più. Il vuoto mnemonico, le amnesie, l’assenza di consapevolezza sono i migliori alleati degli speculatori: spiana loro la strada togliendo di mezzo ogni opposizione.