Una boccata d’aria, dopo sei ore di viaggio con la mascherina e il tic al limite del disturbo ossessivo-compulsivo di lavarmi le mani con il disinfettante ogni tot minuti, non è mai stata così fresca e risolutiva. Appena sceso dal treno alla stazioncina-chalet di Chamby, sopra Montreux, verso l’una di un bel pomeriggio di marzo inoltrato, mi guardo intorno casomai incontrassi con lo sguardo, lo chalet-pensione dove nella primavera 1922 un giovane e sconosciuto Hemingway posa le valigie assieme a sua moglie Hadley. In faccia ai binari c’è l’ex Grand Hôtel des Narcisses. Non siamo infatti lontani da Les Avants e dintorni dove la fioritura dei narcisi, in maggio, vale la pena almeno una volta nella vita. La Pension de la Fôret di un tempo invece, oggi casa privata, sarà nascosta «fra i pini» come lo chalet da queste parti che si trova nei capitoli finali di Addio alle armi (1929): nido d’amore autunno-inverno di Frederic e Catherine con stufa di porcellana a legna e colazione a letto. Poco importa, la caccia oggi è aperta solo per rocce sacre nelle foreste.
Sono uscito di casa per raccontarvi qualcosa di un’anomala roccia piagnucolosa protagonista di una leggenda d’amore osteggiato, la cui forza tellurica, misurata mica da rabdomanti new age dell’ultima ora o profeti-fuffa dell’aria fritta ma dal poli di Losanna, è notevole. E a quanto pare, in questo «luogo meraviglioso dove anche l’anima più desolata saprà consolarsi» come ho letto in un reportage apparso sul «24 heures» qualche anno fa, si trovano anche, secondo il «Conteur vaudois» di sabato quattro giugno 1904, i confetti di Tivoli. Scendo giù per la route de Chaulin rallegrandomi per le parecchie Primula veris di un giallo meno pallido delle solite primule. Un giallo uovo, tonificante, e poi sono su belle dritte, senza parlare delle loro virtù medicinali.
Sulle mura dietro l’Auberge de Chaulin, ristorante rinomato chiuso per coronavirus – come quasi tutto in Svizzera in stato di emergenza al pari del resto del mondo sotto scacco da questa pandemia apocalittica – c’è un affresco dipinto nel 1977 da Alexandre Guhl (1929-1998) che raffigura la légende du Scex que Plliau. Così c’è scritto sul cartiglio srotolato sopra un signore contrariato a cavallo e così si chiama in patois vodese questa roccia che piove – o piange secondo le versioni – dalla forma particolare dove s’incontrano i due innamorati: Joliette e Albert. Risalgo per la route de Corneaux e al bivio-passaggio a livello, imbocco senza ombra di dubbio il chemin du Scex-Que-Plliau che si pronuncia, così dicono, Sé que piau. La strada sale ripida tra i prati, laggiù si apre la vista sul Lemano accompagnata dal gracchiare lugubre dei corvi. Dentro il bosco, molto episodico, quasi raro, il blu mozzafiato della minuta e timida scilla silvestre mi rincuora. Il sottobosco è tappezzato del verde salutista dell’aglio orsino.
La foresta ripida e sinuosa, intervallata da valloni, tra abeti bianchi e faggi muschiati, richiama la foresta incantata di Brocelandia dove si svolgono i racconti del ciclo arturiano. Dopo un’oretta abbondante di cammino da Chamby, oltre ai cinguettii pomeridiani distratti, si sente lo scroscio motivato della Baye de Clarens. Dietro l’angolo, d’un tratto ecco ergersi, enorme, la roccia tufacea. Un blocco tormentato di tufo calcareo che si dipana splendido per un centinaio di metri formando una cavità tipo grotta e al contempo innalzandosi su, in alto, contro il pendio boscoso.
La Roccia che Piange (803 m), avvicinandomi salendo verso di lei, piange sul serio come nella leggenda raccontata da Alfred Cérésole in Légendes des Alpes vaudoises (1885). Joliette, figlia di un montanaro della zona, è innamorata di Albert de Chaulin, figlio del barone di Chaulin che si oppone alla storia dei due. Un giorno, una delle fate del luogo guida i due innamorati a incontrarsi qui. Felici come non mai, abbracciati, si dimenticano del mondo. Arriva però il barone di Chaulin con i suoi arcieri a sorprenderli, infuriato, minaccia di far uccidere i due e gettarli nel vallone. La fata interrompe la rabbia assassina con un canto che invoca il matrimonio dei giovani, ma il barone dichiara beffardo: «Solo quando questa roccia pioverà». E scalcia la roccia con il tallone dei suoi stivali speronati. «Lu scex que plliau! Lu scex que plliau!» esclamano tutti.
In certi punti piove o piange in abbondanza, m’inerpico lì, e irragionevolmente raccolgo l’acqua nel palmo e mi cospargo dietro le orecchie come un sortilegio imbecille antivirus. Come talismani raccolgo poi i sassolini lattescenti-grigiastri, prodotti dall’eterno sgocciolìo calcareo, alcuni davvero levigati e glassati come incantevoli confetti: i confetti di Tivoli. Così si chiamano, traendo il nome dalla località del Lazio famosa per le ville con straordinari giochi d’acqua, queste concrezioni cercate un tempo nei pressi delle cascate del Teverone. Dei gradini naturali, emergono a un secondo sguardo, da questa roccia risanatrice e rivelatoria che in alcune zone prende un colore verdastro.
Sento eccome una forza tellurica qui, al riparo ora nel ventre dello strambo banco di tufo gigantesco che come afferma il petrologo Stefan Ansermet «possiede una specie di personalità propria». Il picnic prevede frittata di verzitt noti anche come carletti, stridoli, o Silene vulgaris. Tiro su il cappuccio della giacca perché ora mi piove proprio in testa. Parafrasando il titolo di una famosa telenovela messicana, anche le rocce piangono.