Non saprei dire se i grandi cambiamenti vengano dal basso o dall’alto. Oppure se non sia necessario un accerchiamento asfissiante e globale nei confronti dei detentori del potere. Lo sport è inequivocabilmente un fenomeno maschile. Non dal punto di vista di chi lo pratica, ma per chi lo dirige e chi ne trae profitto. Servirebbe una rivoluzione per cambiare paradigma. Ci sono oasi virtuose, come tennis e sci alpino, in cui la parità uomo-donna è lì da vedere. Steffi Graf e Venus Williams hanno poco da invidiare alla triade Roger-Rafa-Nole quanto a mediatizzazione e guadagni. Idem per Mikaela Shiffrin nei confronti di Marco Odermatt. Nelle altre discipline, sia pure con le necessarie sfumature, e alcuni «distinguo», la posizione delle donne è di gran lunga subalterna. Il calcio, nonostante alcuni incoraggianti segnali relativi alla copertura mediatica e alla fruizione dei grandi eventi, è l’emblema della disparità.
Il ciclismo, dal canto suo, sta muovendo i primi e importantissimi passi verso il tentativo di livellamento. Da alcune stagioni le squadre World Tour si sono dotate di un settore femminile, conglobato nel gruppo. Le pedalatrici beneficiano di attenzioni e assistenza non dissimili da quelle dei loro colleghi. Le loro corse trovano sempre più spazio nei palinsesti televisivi. Molto rimane da fare sul piano promozionale e salariale. Ma per questo servirebbe una vera e propria rivoluzione culturale. In Svizzera un importantissimo impulso lo potrebbe dare l’organizzazione degli Europei del 2025, che pochi giorni fa l’Uefa ha attribuito al nostro paese.
In questo panorama, che si muove tra la ricerca delle pari opportunità e la bieca conservazione dello status quo, il Ticino si ritrova piuttosto su questo secondo fronte. Nel mondo lavorativo nazionale le donne ticinesi sono quelle che hanno il maggiore divario da colmare. Secondo le statistiche circa il 20%. Ebbene, nello sport il gap è abissale. Da noi le atlete – salvo rarissime eccezioni, Lara Gut-Behrami su tutte – vivono una realtà in cui i compensi sono semplicemente un miraggio, oppure dei piccoli rimborsi-spesa.
Capita anche che il loro sogno si infranga, nonostante la disponibilità ad autofinanziare la loro attività. È capitato alcuni mesi fa alle ragazze del FC Lugano. Ancora peggio è andata – storia di poche settimane fa – alle loro colleghe dell’hockey su ghiaccio, le celeberrime Lugano Ladies, che si sono viste chiudere in faccia un progetto che durava, con successo, da decenni. «Un club, una città, una passione». Il sito ufficiale si mostra ancora agli utenti con questa incoraggiante dichiarazione d’intenti. Ma poco sotto, il 16 marzo, il racconto assume tinte fosche: «Non ci sono più i presupposti per continuare (…) termina qui la storia delle Ladies». Non sta a me sindacare sulle ragioni. Del resto, le cifre sulla scarsissima presenza di spettatori sulle tribune sono desolanti. Anche in questo caso si imporrebbe una sorta di rivoluzione culturale.
Due importanti realtà sportive femminili frustrate nel giro di pochi mesi. Aggiungiamo anche la pallacanestro, che fino a pochi anni fa vantava Riva e Bellinzona nella massima categoria, e che ha dovuto fare un passo indietro. Non resta che formulare i migliori auguri a chi ancora è rimasto sul campo di battaglia. Penso alle ragazze del Lugano Volley, che in questa stagione hanno sfiorato la gloria, giungendo vicinissime a uno storico trionfo in Coppa e in Campionato. Penso alle HCAP Girls, reduci da un sofferto e tribolatissimo primo campionato in Serie A.
Anche dopo queste riflessioni non saprei dire da dove possa partire il vento nuovo. Nel calcio – quello continentale, sia maschile, sia femminile – si sta profilando una donna che vuole dare l’assalto all’Uefa. Lise Klaveness, ex calciatrice, avvocata, presidente della Federazione norvegese, punta alla poltrona occupata dallo sloveno Aleksander Ceferin dal 14 settembre del 2016. Sarà musica del futuro e Klaveness dovrà lottare mettendo sul tavolo tutti i suoi atout. Come spesso accade in queste circostanze, la logica del lobbismo potrebbe prendere il sopravvento su quella dei valori e della qualità.
Un cambiamento radicale di orientamento gioverebbe al mondo dello sport. Se non altro per la speranza che il vento nuovo possa quanto meno spazzare vie le nubi grigie e nere create da generazioni di dirigenti uomini, spesso impegnati a difendersi nelle aule dei tribunali, invece che nei loro uffici a promuovere i valori dello sport.