In molti ci stiamo vaccinando per proteggere noi stessi e gli altri. A volte ci sottoponiamo anche al cosiddetto tampone per poter incontrare persone a rischio o per partire in vacanza. E indossiamo diligentemente la mascherina, sempre allo scopo di una reciproca protezione. Queste azioni, di per sé non molto gradevoli, sono mezzi utili per ciò che è un buon fine.
Possiamo allora affermare che si tratta di comportamenti buoni? La risposta non è così scontata perché, se di fatto sono da considerare comportamenti buoni, lo sono però solo per le conseguenze che rendono possibili. Il valore risiede tutto negli scopi che ci prefiggiamo. In altre parole, il valore dei comportamenti ritenuti utili dipende dal valore delle conseguenze che rendono possibili. I mezzi non trattengono in sé alcun valore. Sono semplici mezzi. Il valore sta nelle finalità, negli scopi delle nostre scelte. È lì che abita il senso della vita, fin nei suoi piccoli dettagli. Eppure l’utilità è oggi considerata di per sé un valore, direi il valore più riconosciuto e più gettonato. Se utile, un’azione è immediatamente considerata buona. Questa pervasiva valorizzazione dell’utilità può avere ricadute sulla percezione di altri valori che non sono mezzi utili ma, al contrario, sono espressioni della nostra umanità. Sopraffatte dalla rincorsa all’utilità, molte domande sul senso delle nostre scelte restano così sullo sfondo, spesso nemmeno pronunciate e forse nemmeno pensate.
Tutto ciò può rivelarsi un limite nel nostro modo di abitare la vita. Nella scuola, ad esempio, dove una logica basata sull’utilità dello studio (per passare gli esami, per vincere un concorso, per acquisire una bella posizione economica) rischia di soffocare il senso stesso dell’esperienza della conoscenza; rischia di non lasciarci riconoscere il suo intrinseco valore, di non lasciarci sostare in atmosfere che ci consentano di viverla nella sua ricchezza umanistica, come esperienza che nutre il nostro mondo interiore. Le derive utilitaristiche della scuola sono un sintomo preoccupante di un atteggiamento, peraltro molto diffuso, che si manifesta in tutte quelle situazioni in cui la domanda «che senso ha?» lascia facilmente il posto ad un convinto «a che cosa serve?». Chiedersi a che cosa serva è infatti una domanda che anticipa e scavalca ogni altra possibile motivazione; lascia sullo sfondo altri perché, riconducibili a quel «devo perché devo» in cui Kant riconosceva la forza della legge morale.
Vale la pena di richiamare alcune derive della tecnologia e della sua visione del progresso. Come ben sappiamo, la disponibilità di mezzi sempre più efficaci viene spesso considerata essa stessa un fine, un obiettivo irrinunciabile. E questo perché lo scopo più o meno dichiarato del progresso tecnologico è quello di rendere possibili ulteriori progressi. Ma se di progresso davvero si tratta, qual è la meta? Progresso per andare dove? In questa prospettiva autoreferenziale, in cui il presente si impadronisce anche del futuro, diventa difficile trovare una risposta.
Una caricatura divertente dei possibili effetti della visione utilitaristica l’ha offerta il sociologo Serge Latouche raccontando di un inventore di rasoi elettrici sempre più performanti che gli riducevano il tempo della rasatura mattutina allo scopo di avere più tempo per progettare nuovi tipi di rasoio, ancora più veloci ed efficaci, che a loro volta gli concedessero ancor più tempo per inventarne di migliori.
Al di là di simili derive, l’utilitarismo, attento alle conseguenze delle nostre azioni, resta un’importante prospettiva etica con solide radici nella modernità.
Ce lo ha ricordato l’emergenza sanitaria che ha permesso di mantenere chiara sia la differenza tra mezzi e fini sia il loro rapporto, lasciando aperto un orizzonte di senso in cui poter riconoscere i comportamenti buoni e le nostre responsabilità, nelle piccole e grandi scelte della vita. Questa consapevolezza è impegnativa, perché i principi possono entrare in conflitto con le conseguenze e a volte ci espongono a veri e propri dilemmi etici.
Come quello che assale un ipotetico Giovanni a cui la zia, sul letto di morte, dona i risparmi di un’intera vita di sacrifici facendosi promettere di usarli per finalmente impegnarsi a concludere gli studi. Giovanni ringrazia, promette, dà la sua parola d’onore, senonché, poco dopo la morte della cara zia, il suo migliore amico perde il lavoro, è senza soldi, ha un bambino, e gli chiede un aiuto. Che fare? Mantenere la promessa, esprimere fedeltà alla parola data, oppure contribuire ad alleviare le difficoltà dell’amico? Scelta difficile, eppure inevitabile.