La ricostruzione e la fragile solidarietà

/ 01.03.2021
di Aldo Cazzullo

Ho seguito l’insediamento di Mario Draghi al Senato e ho provato un certo imbarazzo. Non per lui e per il suo discorso, di alto livello. Per i senatori. La realtà è che Draghi non lo voleva quasi nessuno, anche se hanno finito per votarlo quasi tutti. Un mese prima non si trovava un parlamentare disposto a scommettere su quella che pareva già allora la soluzione più logica: mettere a Palazzo Chigi l’italiano più qualificato in Europa e sui mercati a spendere i 209 miliardi del Recovery plan. Ci si è arrivati non grazie, ma nonostante i partiti.

Draghi e i senatori si sono fronteggiati con circospezione. È stato l’incrocio tra un presidente del Consiglio che parlava per la prima volta in vita sua all’aula e parlamentari incerti se applaudire, a rischio di interromperlo, o restare a braccia conserte, a rischio di offenderlo. Il risultato? Tanti applausetti, in particolare quando i vari partiti riconoscevano le proprie parole-chiave: così il Partito democratico ha approvato il passaggio sull’europeismo, la Lega quello su rimpatri dei clandestini. Quasi impietriti i Cinque stelle mentre qualche senatore, per non sbagliare, ha applaudito sempre, anche quando Draghi ha stigmatizzato la desertificazione del pianeta che agevola il passaggio dei virus dall’animale all’uomo.

Il nuovo presidente del Consiglio ha incentrato il programma del suo Governo sul concetto di ricostruzione, come nel Dopoguerra, con i Governi di unità nazionale. Il tema del rapporto tra le generazioni, del resto, fa parte delle sue riflessioni pubbliche da molto tempo. Lo ricordo più di dieci anni fa a un convegno di Comunione e liberazione a Rimini, dove citò un insegnamento di suo padre, che su un muro della città tedesca dove era emigrato aveva letto questa scritta: «Se hai perso il tuo denaro non hai perso nulla perché potrai guadagnarne altro. Se hai perso l’onore hai perso molto, ma con un atto eroico lo potrai riavere. Ma se hai perso il coraggio hai perso tutto».

In Senato non ha ripetuto quella citazione, ma ha detto un’altra frase che mi ha molto colpito: «Spesso mi sono chiesto se la mia generazione stia facendo per i nostri figli e i nostri nipoti quello che i nostri padri e i nostri nonni hanno fatto per noi, sacrificandosi oltre misura». La risposta ovviamente è no. E quindi il suo Governo sarà un’occasione per fare qualcosa di concreto per le nuove generazioni. I toni del primo intervenuto pubblico di Draghi sono stati molto diversi dai rimproveri di Napolitano ai parlamentari che lo rieleggevano, o dall’atteggiamento di Renzi che con la mano in tasca esordiva a braccio: «Auspico che sia l’ultima volta che voi senatori votate la fiducia a un Governo». Al contrario Draghi ha sostenuto che la nascita del suo Governo non è la sconfitta della politica: nessuno deve fare un passo indietro, semmai un passo avanti. E ha chiarito che intende mostrarsi premier a tutto tondo, non solo uomo di finanza: «Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta».

Si tratta ora di capire quanto tempo potrà durare un Governo che si potrebbe definire di solidarietà nazionale, con quasi tutti i partiti insieme in maggioranza. Draghi ha esposto un programma ampio, che richiederebbe anni, per riformare il fisco, la giustizia, la burocrazia; ma dice di non volere durare a ogni costo: «Il tempo del potere può essere sprecato anche nell’illusione di conservarlo». La sensazione è che la Lega non reggerà a lungo nella stessa maggioranza con la sinistra, lasciando da sola Giorgia Meloni all’opposizione. Anche perché la situazione dell’Italia è talmente grave che pure il migliore dei Governi rischia di diventare impopolare.

Ovviamente con un arco temporale di un anno non si fa nessuna ricostruzione. L’Italia è reduce da una lunga crisi strisciante cominciata all’inizio degli anni Novanta, con la perdita di competitività e il declino industriale; da una crisi acuta importata dopo il 2008 dagli Stati Uniti, dalla quale secondo i politici gli italiani sarebbero dovuti uscire prima e meglio degli altri, mentre è accaduto il contrario; dalla crisi drammatica provocata dalla pandemia, che un anno fa ha colpito l’Italia per prima tra le Nazioni europee.

La metafora della ricostruzione, come dopo la Seconda guerra mondiale, non è affatto peregrina. Va detto che il Paese nel 1945 era incomparabilmente più povero di oggi. Fu ricostruito con il lavoro. Lavoro prestato in condizioni durissime, oggi per fortuna e doverosamente non riproducibili: bambini e donne incinte curve sui campi, ciminiere in città, acciaierie in riva al mare, reparti verniciatura. Ma lavoro. Oggi i soldi si fanno con altri soldi, il lavoro sembra diventato un retaggio del passato, da sostituire con i robot, la Rete e il reddito di cittadinanza. E se proponi un piano per inserire i giovani nelle aziende e nella pubblica amministrazione, con stage che siano vere esperienze e non forme per far lavorare la gente senza stipendio, ti seppelliscono di insulti. Non so se gli italiani abbiano lo spirito necessario a ricostruire, con il pensiero rivolto alle generazioni future. Di sicuro da Draghi si attendono molto.