Gentile Silvia,
dopo aver letto il suo libro Quando i genitori si dividono: le emozioni di figli e le sue risposte nella «Stanza del dialogo», le invio le mie riflessioni sulla dissoluzione di tante, troppe famiglie. Nel bel tempo andato, non proprio un ambiente idilliaco, la soglia della tolleranza richiesta ai coniugi, piuttosto alta, era probabilmente il risultato di un lungo apprendistato. Ora, in una società dove il paradigma non è più quello del «fidanzamento» ma, già dall’adolescenza quello delle «esperienze», viene il dubbio che anche il matrimonio (o convivenza) si riduca all’ennesima esperienza. D’altronde coniugare, come scrive Bauman, la sicurezza dell’aggregazione e la libertà di instaurare nuove relazioni è un equilibrio acrobatico. Nel suo libro, il coro delle testimonianze sofferte mostra che c’è un alto prezzo da pagare. I figli considerano quello che per i genitori è un effetto collaterale, come una disgregazione della loro storia, un atto di disamore, un tradimento del rapporto affettivo, una sindrome di abbandono. Anche se poi s’impara a vivere con ferite non cicatrizzate. La società liquida (Bauman) non è una fatalità ma il prodotto di un modo di esistere… Coniugare libertà e responsabilità mi sembra un passaggio obbligato, soprattutto quando è in gioco il benessere dei figli. Quali valori rimangono? È possibile risolidificare la società liquida? O dobbiamo rassegnarci a riassemblare i cocci del giocattolo rotto? / Bernardino D.
Caro Signor Bernardino,
la ringrazio per aver affrontato questo tema che tanti ex coniugi considerano superfluo e fastidioso. Durante le presentazioni del libro citato, intervenivano nonni, figli, nipoti, avvocati, assistenti sociali… Un clamoroso silenzio contraddistingueva invece i protagonisti di un fallimento su cui, a quanto pare, pongono una pietra tombale. La giustificazione più frequente era: meglio separarsi che litigare. Ma chi l’ha detto? Nel passato questa capacità c’era. Ma l’obbligo di attendere, tollerare e rassegnarsi era riservato alle donne. Gli uomini avevano carta bianca di intrattenere relazioni extraconiugali purché evitassero lo scandalo. Le mogli tradite piangevano, svenivano, si confidavano col confessore ma tacevano. Per altro nei romanzi, le adultere (Anna Karenina e Madame Bovary) erano destinate a espiare la colpa col suicidio. Nella società patriarcale alle mogli, spesso prive di reddito e di relazioni sociali, non rimaneva che far buon viso a cattivo gioco. Per il buon nome della famiglia e il benessere dei figli. Possiamo riproporre oggi quella condizione? Non credo. Le donne hanno lottato su molti fronti per ottenere margini di libertà, autonomia, eguaglianza e nessuna vorrebbe rinunciarvi. Eppure i ricordi familiari ci tramandano storie d’infelicità femminile che scoraggiano il rimpianto del buon tempo antico. Lei sposta la riflessione sul futuro con la domanda: «Che cosa possiamo fare per coniugare libertà e responsabilità?». Un quesito che giunge, come una freccia ben mirata, al cuore della nostra epoca. La libertà non è mai gratuita. Qualunque scelta comporta la rinuncia ad altre possibilità tanto che, come avverte Erich Fromm, la libertà fa paura. Eppure non possiamo non desiderarla e cercare armonizzarla con il bisogno di vivere insieme. Come si cerca di risolvere questo paradosso? Spesso abbandonandosi in modo coatto alla ripetizione. Per cui molti matrimoni si susseguono provocando stratificazioni (figli del primo, del secondo, del terzo matrimonio) sempre più difficili da gestire. Che fare? La parola chiave è responsabilità. Un peso difficile da portare nell’epoca dell’individualismo narcisista, condannato a un perpetuo scontento. Solo quando l’infelicità individuale e sociale diverrà insopportabile si cercheranno altre forme di convivenza. È quello che sta avvenendo, ma in un modo oppositivo che esaspera le differenze e allontana le soluzioni. Solo un’etica condivisa, attenta al bene comune, e una educazione critica e riflessiva potranno produrre mutamenti positivi. Quali? In un orizzonte confuso, non riesco a intravvederli.