Cara Silvia,
la leggo da tanti anni ma non le ho mai scritto perché i miei tre nipoti – Adele di 9 anni, Francesca di 16 e Massimo di 18 – crescevano bene e non ci hanno mai dato problemi. Ma anche per loro, con l’arrivo pandemia, molte cose sono cambiate e credo che alla fine niente sarà come prima. Il numero di morti è impressionante eppure pare che molte persone, soprattutto tra i più giovani, non se ne siano accorte. Non sanno rinunciare ad alcune abitudini come quelle di festeggiare Capodanno in gruppo, andare a trovare parenti e amici in altri Cantoni oppure andare a sciare nonostante molti esperti ci abbiano avvertiti del rischio di contagio. Siamo una società di egoisti viziati, incapaci di fare rinunce anche piccolissime. Molte persone tendono a rimuovere e pensare che le rinunce riguardano solo gli altri, dimostrando una certa superficialità. Siamo egoisti o superficiali?
Intanto i medici ci dicono che devono aumentare ancora i letti in terapia intensiva, che tra poco non ci saranno più posti e i pazienti dovranno essere ricoverati in altri Cantoni… Ci siamo assuefatti ai numeri di contagiati e di morti? Vorrei riflettere insieme a lei. Grazie./Barbara
Cara Barbara,
grazie di questa lettera che ci aiuta a riconoscere le nostre responsabilità piuttosto che inveire contro il virus o a far finta di niente.
È indubbio che dagli anni Sessanta del secolo scorso fino alla crisi finanziaria mondiale del 2008 e al progressivo allarme per il crollo globale dell’ecosistema abbiamo vissuto in un delirio di onnipotenza. Eravamo convinti che le risorse energetiche fossero illimitate, la produzione di beni di consumo infinita e che il progresso tecnico-scientifico avrebbe risolto tutti i nostri problemi. In questo clima di euforia collettiva non sentivamo il bisogno di educare i giovani al senso di responsabilità: non ce n’era bisogno e non avrebbero capito il perché.
Improvvisamente, senza nessuna consapevolezza, siamo precipitati, nel marzo scorso, nell’incubo di una pandemia che ha travolto le nostre certezze. Nella prima fase l’abbiamo presa bene, convinti che la ricerca scientifica avrebbe ben presto debellato il nemico e saremmo tornati alla situazione precedente. Si ricorda lo slogan «Andrà tutto bene»? Ma così non è stato e la seconda ondata ci ha precipitati nello sconforto. Dopo l’estate, con la morte di molti, soprattutto anziani, abbiamo cominciato a comprendere che la situazione era più grave del previsto e che stavamo percorrendo un tunnel di cui solo ora, grazie ai vaccini, s’incomincia a intravvedere l’uscita. Sono stati mesi molto duri ma non completamente negativi: la consapevolezza della nostra fragilità ci ha reso più sensibili ai bisogni degli altri, più disposti ad ascoltarli e aiutarli.
Il bisogno di dare e ricevere attenzione e accudimento accomuna ogni essere umano sin dalla nascita. Nessuno basta a se stesso, abbiamo tutti bisogno degli altri. Il fatto nuovo è che ci stiamo rendendo conto che anche la natura, rivelatasi fragile e vulnerabile, ha bisogno di essere curata, conservata e protetta. Le cause dell’insorgere e del diffondersi della pandemia hanno evidenziato che non siamo spettatori neutrali ma parte dell’ecosistema. Dopo l’epoca dell’individualismo narcisista ed egoista, stiamo comprendendo che dobbiamo porre al centro della società il bene comune. «Ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica trova il suo compimento quando si pone al servizio del bene comune», afferma papa Francesco.
Evidentemente questo messaggio non è giunto a tutti oppure non è stato compreso e molti, troppi, hanno continuato a ignorarlo. Ma è un’indifferenza che costa cara perché mette a rischio tutti e costringe i più deboli a restare indietro, ad affrontare la solitudine e l’indigenza senza speranza di risollevarsi.
In questo clima di emergenza, le condotte trasgressive che lei denuncia vengono giustificate come un’affermazione di libertà, d’indipendenza, come la prova che non si ha paura. Sfidare le norme, non preoccuparsi delle sanzioni, irridere i pericoli rende euforici, come sanno gli adolescenti. Ma qui è in gioco, non solo la salvaguardia personale, ma quella della comunità e, al limite, dell’umanità. Come rivela il possibile esaurimento di posti nelle terapie intensive, le nostre risorse sanitarie non sono infinite per cui occorre assumere un impegno collettivo e individuale per prevenire il contagio.
La tentazione di affidare la fine dell’emergenza agli addetti ai lavori considerandosi spettatori di un evento che non ci coinvolge in prima persona è ingannevole e pericolosa perché il traguardo è lontano e non prevede scorciatoie.
Credo che la realtà che stiamo affrontando sia di per sé stessa una buona scuola, però solamente un’opera di educazione rivolta a tutti, non esclusivamente a bambini e adolescenti, potrà rendere più giusti i rapporti sociali e più rispettosi quelli con la natura. Lo dobbiamo a noi stessi e alle generazioni future, ricordando che il mondo non l’abbiamo ereditato dai nostri padri ma preso in prestito dai nostri figli.