La Reitschule di Berna

/ 02.04.2018
di Oliver Scharpf

Da sempre, appena prima di arrivare alla stazione di Berna, occhi incollati al finestrino. Sulla destra, per tre quattro secondi, ogni volta rimango a bocca aperta per via di quel singolare contrasto tra graffiti e la struttura a traliccio, i tetti spioventi, persino torrette. La Reitschule, nota anche come Reithalle, è stata costruita nel 1897 su disegno dell’architetto Albert Gerster (1864-1935) e occupata in pianta stabile dall’ottobre 1987. L’ex scuola di equita-zione o maneggio che dir si voglia, oggi è un centro sociale autogestito in piena regola. C’è un teatro, un cinema, un bar, un bar-ristorante, e una sala concerti. Stasera suonano gli Slowdive: gruppo shoegaze inglese il cui album d’esordio intitolato Just for a day (1991) amavo ascoltare fino alla noia negli anni novanta con il walkman in tasca; che tempi. E così, quale migliore occasione per incamminarsi di buon passo verso la Reitschule di Berna (556 m)? Benché riceva in parte delle sovvenzioni dalla città, non è vista di buon occhio da tutti.

«Amata e odiata» titolava un articolo di Luca Beti del 29 gennaio scorso su queste stesse pagine di «Azione». Del resto, a differenza forse della sorella maggiore Rote Fabrik – ex fabbrica di seta del 1892 in riva al lago di Zurigo occupata dopo la calda estate di scontri del 1980 iniziati quella primavera davanti all’Opera – non ha perso del tutto la sua carica eversiva. Infatti, in una specie di autoritratto trovato sul sito, si legge: «La Reithalle è l’incarnazione delle persone scomode, degli anarchici, dei parassiti, dei riformatori del mondo, dei sognatori e degli eterni solidali, in breve: i turbolenti degli anni 80 e 90, ma anche dei coraggiosi e degli esuberanti che non hanno accettato e che non accetteranno niente tanto facilmente». Una testa di cavallo in arenaria grigia troneggia sul portale a tutto sesto della stessa pietra. Sopra, si decifra a malapena una scritta in stampatello: Städtreitschule. È l’entrata di una grande sala, non gestita dai reitschuleriani, dove a volte si gioca a calcetto e si organizza un mercato delle pulci. Graffiti dappertutto, tranne che sull’intelaiatura di legno della zona a graticcio. È forse questo elemento spaesante ad attrarmi di più.

Sulla facciata centrale, dove il tetto spiove come nelle fattorie dell’Oberland bernese, forma una stella. Altrove le travi sono cerchi, rombi quadrati. Entro passando sotto un portale con sopra un tetto a gradoni: mattoni rossi, e sempre in arenaria, lo stemma cittadino dell’orso. In questo corridoio-galleria si trova il ristorante-bar Sous le pont. Oggi serata vegetariana, ma è ancora presto per pensare alla cena. Sono venuto in enorme anticipo al concerto, così da perlustrare con calma. Nel cortile mattoni chiari, piante rampicanti, l’entrata del cinema e del Tojo Theater. Ci dovrebbe essere anche una Frauenraum, ritrovo di un gruppo di femministe. Ma di femminismo, sinistra, destra, non vorrei occuparmi più di tanto, va almeno detto però che questa primavera il popolo bernese deve votare per la sesta volta in merito alla Reitschule. L’UDC locale ha lanciato un referendum contro la concessione di un credito di tre milioni di franchi per lavori di ristrutturazione. In cinque occasioni, i bernesi hanno sempre votato in favore dell’ex maneggio che sembra quasi un castello.

Ritorno sui miei passi; nel piazzale davanti, vicinissimo al viadotto dove passano i treni, va data notizia di un orologio matto. Un orologio delle stazioni ferroviarie riprogrammato per farne di tutti i colori. Dei blocchi di pietra attorno a un alberello, a guardarli bene, mostrano dei volti grotteschi. Opera di un certo Odermatt, come si legge scolpito. Vado sulla Schützenmattstrasse e faccio il giro attorno al colorato castello contestatario. Sulla Neubrückstrasse, sorprendono dei delicati fiori di Taraxacum officinale dipinti su in cima alla facciata. Ricordano lo stile degli affreschi nelle trombe delle scale a La Chaux-de-Fonds. Ecco, scovare queste minuzie impreviste, per me vale oro. Nel buio della sera, guardo passare i treni con i finestrini illuminati. Controcampo che ci ha messo una vita a realizzarsi. Di colpo riconosco le prime note di Catch the breeze provenire dietro l’angolo. Corro quasi.

La sala da concerti Dachstock ha un’entrata sulla Neubrückstrasse, a pochi metri dai denti di leone dipinti. Lacrime agli occhi, per un attimo. Vedo in fondo alla mansarda equestre con enormi travi in legno, attraverso un esile spiraglio, Rachel Goswell cantare in una luce azzurrognola: è l’inatteso soundcheck. Salgo le scale, mi metto sulla soglia. In giro ci sono solo i giovani francesi dei Dead Sea, gruppo spalla di questa tournée degli Slowdive. Entro e mi siedo discretamente in un angolo. Chitarre corrosive e sognanti si sovrappongono all’improvviso alla voce angelica. Emozioni al galoppo. Più di vent’anni dopo quelle lunghe passeggiate malinconiche al lago d’Origlio o al parco Ciani con gli Slowdive nelle orecchie e nell’anima, li sento ora dal vivo, provare il concerto di stasera. Solo per un giorno, un tuffo lento.