«Chiunque abbia fatto una passeggiata in montagna, una sola, sa che sopra il limite dove finiscono le pinete, nella zona dei pascoli superiori, regna una vegetazione che ha solo un piccolo numero di specie comuni con la pianura e la cui fisionomia è talmente originale che a prima vista ne siamo colpiti» scrive Eugène Rambert (1830-1886). Professore di letteratura francese, naturalista, poeta, scrittore eccetera – la cui opera maggiore è Les Alpes suisses (1866-75) in cinque volumi che pochi di voi avranno in casa a differenza magari del suo libro intitolato I nostri uccelli – al quale è stato dedicato un giardino alpino sopra Montreux. Dal binario otto della stazione di Montreux parte l’ultracentenario trenino a cremagliera che in una cinquantina di minuti ti porta su in questo singolare posto. Visitabile da fine giugno a inizio settembre, la Rambertia è stata creata nel 1896 da Henry Correvon (1854-1939): botanico e orticoltore considerato «il papà dei giardini alpini».
E così, alle 13.17 di una giornata mutevole ai primi di agosto, salgo sul trenino direzione Rochers-de-Naye. Alla guida c’è un giovane rasta gioviale che dona un tocco di leggerezza in più alla scampagnata botanica. Già a Glion il Lemano è mozzafiato, qualche chalet di vacanza lo si incontra sul tragitto, mentre fiabesco è il grande castello panoramico dell’architetto Eugène Jost a Caux. Dopo le pinete entriamo nella nebbia. Sono l’unico passeggero e comincio a inquietarmi un po’, solo a Milano ho visto nebbia simile ma qui si tratta pur sempre di camminare tra le rocce e prati scoscesi a quasi duemila metri. Il giallo delle alte genziane maggiori, ai bordi delle rotaie, rassicura solo in parte. Rochers-de-Naye, comune di Veytaux, capolinea: m’incammino con le inadatte clarks per il sentiero bagnato. Tira un vento che lascia sui capelli e i prati, una specie di rugiada o forse è pioggia portata. Una stupa himalayana è stata posta nel luglio 1996 in ricordo del centenario della Rambertia che raggiungo in dieci minuti buoni. Il nome si legge impresso a fuoco su un’assicella di legno obliqua, appesa sul minichalet chiuso accanto. Non c’è nessuno.
Sulla destra, subito una marea di sassifraghe alpestri, ognuna ha il suo bel cartellino con su il nome scientifico e sotto quello comune. I due caratteristici denti di roccia, tra i quali si svolge la parte in discesa dell’ettaro costellato da circa mille specie, si distinguono appena, avvolti nella bruma fatata. L’inquietudine lascia il posto a uno stupore solitario, scopro per la prima volta il viola della Campanula glomerata ancora in boccio. Oltre a non aver mai visto quasi nessuno di questi fiori, i colori risaltano per via del grigio nebbia. Il panorama sparisce, nessuna distrazione, soltanto un improvviso botanismo appassionato d’alta quota. E finalmente, benché non sia proprio un fan per via della sua riproduzione commerciale turistica in tutte le salse e la sua simbolizzazione nazional-alpina, qui alla Rambertia sopra Montreux (1999 m), vedrò la famosa edelweiss. Intanto con cautela scendo gli scalini tra i due denti.
Tra i sassi faccio la conoscenza dell’Helichrysum thianschanicum noto anche come elicriso del Tien Shan, sistema montuoso al confine tra Cina e Kirghizistan, il cui nome vuol dire Montagne Celesti. Qui infatti, oltre alla flora autoctona, ci sono piante di tutte le montagne del mondo. Guardando bene si nota che le rocce non sono naturali, ma poste ad arte come se lo fossero. Cementate tra loro con gli spazi necessari per l’acclimatazione ideale delle piante: una finzione chiamata rocaille come per le finte grotte nei giardini delle ville di fine ottocento-inizio novecento. Periodo piùomeno del boom dei giardini alpini, quando c’erano persino dei rocailleur di professione. I sassi sono stati raccolti in giro per le montagne non a caso, ma scegliendoli patinati dalle intemperie e cesellati dall’erosione. «Un sasso deve offrire un’immagine della bellezza» annota Henry Correvon in Les plantes des montagnes et les jardins alpins (1914). Su un sasso, lenta e goffa, si muove una salamandra tutta nera. Risalgo e percorro l’itinerario sull’altro lato dove trovo la leggiadra Primula alpicola giallo pallido e il color vinaccia della splendida Saussurea taipaiensis. Dell’edelweiss nessuna traccia, gironzolo su e giù per i brumosi sentierini rocciosi, tra le rocailles farcite di flora alpina, ma niente. Poi quando sto per andare, eccola lì.
È minuscola, mica tanto bianca come dice il nome o si vede nei souvenir, piuttosto grigina-argentea, vellutata. È posizionata proprio sotto il naso, appena uno arriva, ma forse proprio per questo passa inosservata. Non male alla fine, eccentrica di certo. Preferisco però la delicatezza dei petali rosa della non lontana Potentilla nitida conosciuta anche come cinquefoglia delle Dolomiti i cui stili rosso sciroppo di lamponi, accolgono sulla punta, commoventi goccioline di pioggia. Di colpo, mi fanno venire in mente, le ciglia dell’occhio di una ballerina di cancan immortalata da Man Ray.