A Châtillon, villaggio di quattrocentottantaquattro anime a cinque chilometri da Délemont con il buon odore di letame nell’aria pomeridiana d’autunno, una bambina passeggia con il suo border collie di nome Charlie. Secondo il Guinness dei primati qui si trova «la più vecchia e grande quercia d’Europa». A undici minuti di cammino sconcentrato dalla fermata del bus Haut du village, in un pascolo ondeggiante non lontano dal limitare dei boschi, immersa nell’ultimo sole dell’ultimo giovedì di ottobre, più maestosa del previsto, si mostra la quercia millenaria di Châtillon (566 m).
Conosciuta anche come «Chêne des Bosses», per via del suo tronco bitorzoluto il cui diametro è di tre metri e la circonferenza, misurata a petto d’uomo, quasi di nove. Alta una ventina di metri, mi perdo – naso all’insù – nella sua magnifica corona di rami e fronde. La sua chioma di foglie lobate è ancora sul verde con riflessi marroncini-giallini come se fosse avvolta in un pulviscolo d’oro. Non si stenta a credere che «il culto della quercia o del dio della quercia sia stato osservato da tutti i popoli in Europa» come si legge nel Ramo d’oro (1922) di James G. Frazer.
Protetta da un recinto come i boschetti sacri antichi, avvicinandomi mi verrebbe da abbracciarla ma è impossibile da abbracciare talmente è grande il tronco e poi mica ci conosciamo così bene da lasciarsi andare. Mi limito a qualche pacca sulla corteccia. La rugosità e nodosità è impressionante ma dopo tutti questi anni non ha cedimenti, ripensamenti o dubbi, si eleva magistrale. Una Quercus robur, «di millequarantasette anni» secondo la bambina in giro con il Charlie, ha trovato il suo habitat ideale. Pascolo protetto dal vento grazie alla montagna di Moutier, ruscelli, aria di campagna giurassiana corroborante. Qua e là, in lontananza, si vedono altre vecchie querce. Era usanza, un tempo, per ogni matrimonio nel villaggio, piantare una quercia. Come per certi quadri al museo, per ammirare come si deve la quercia da record, bisogna indietreggiare un po’. E anche così, non è facile abbracciarla tutta con lo sguardo. Il tragitto di certi rami mi lascia a bocca aperta. A Dodona, nell’Epiro, in Grecia nordoccidentale, c’era una quercia oracolare il cui stormire delle fronde e fruscìo delle foglie veniva interpretato attraverso l’arte divinatoria. Chissà se anche qui da queste parti, qualcuno pratichi ancora la dendromanzia. Si sa solo che un dendrologo di Neuchâtel si era fatto vivo per contestare la venerabile età della quercia, bollato come guasta-feste dagli abitanti del villaggio è stato mandato a quel paese. Del resto, un carotaggio, per questa quercia, classificata come monumento storico dal 1950, sarebbe inutile visto che l’interno, come altre querce secolari, è cavo.
Di sicuro, sotto la corteccia, vivono le driadi: le ninfe delle querce. Se la sono vista brutta, mezzo secolo fa, quando un maldestro distruttore di nidi di vespe, ha quasi incendiato la quercia. C’è ancora traccia ben visibile di quell’accaduto: la parte ferita è riparata da una curiosa superficie a scandole. Pierre-Alain Seuret, presidente della bourgeoisie de Châtillon, alla quale appartiene il pascolo dove vive la quercia millenaria come pure altri trecento ettari di questo piccolo comune del Giura, anni fa, intervistato per un articoletto apparso su «La Liberté» che avevo letto nel fosco e intrigante buffet de la gare di Porrentruy, affermava che la quercia (come il mondo in un titolo di Elsa Morante) era stata salvata dai ragazzini. Senza tregua, di corsa, andavano e venivano dal ruscello con secchi d’acqua. Sopravvissuta anche a diversi fulmini, mi siedo sulle sue radici. Appoggio la schiena al tronco, maculato, in alcune zone, dal muschio. Consacrata a Giove, non c’è giorno migliore del giovedì per far visita a una vecchia quercia e il giovedì è anche il mio giorno preferito.
Rifugiato sotto la quercia, capisco la signora lussemburghese che qualche anno fa è venuta qui ai suoi piedi a dormire per tre giorni di fila. «Le ha fatto bene» mi ha detto prima il guidatore del bus. Tentato da una siesta, mi accontento di far merenda: torta di Linz che divoro, avendo saltato il pranzo, in un batter d’occhio. Sento un rumore, saranno mica le driadi che si lamentano di non averne ricevuto neanche un pezzettino? È uno scoiattolo, veloce come un fulmine.