La precarietà non è obbligatoria

/ 24.07.2017
di Aldo Cazzullo

Gli ultimi dati sulla disoccupazione giovanile in Italia sono drammatici. Un milione di ragazzi non studiano, non si formano, non hanno un lavoro e neppure lo cercano. In queste condizioni, il reddito di cittadinanza – dare quasi mille euro a tutti in cambio di nulla – sarebbe un’autentica follia. Eppure è una proposta che viene presa sul serio.

La responsabilità di una statistica così deprimente è in primo luogo di noi adulti. Forse abbiamo illuso i nostri giovani con l’idea di una società sempre in espansione, in progresso, con lavoro ben remunerati, creativi, non noiosi, «smart».

Non è andata così. Però quando vedo la volontà di imparare e di lavorare, l’educazione, la gentilezza di molti degli studenti stranieri, o figli di immigrati, allora penso che, ancora una volta, la politica che non riesce ad approvare lo ius soli è molti passi indietro rispetto alla realtà.

L’Italia vive il dramma della disoccupazione intellettuale, dei laureati che restano precari a vita, perché investe troppo poco in cultura, ricerca, istruzione, università, e anche spettacolo.

Bisogna avere però il coraggio di riconoscere che, se molti giovani non lavorano, la colpa è anche un po’ loro. Non è vero che gli stranieri fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, tipo raccogliere i pomodori o pulire le case. O, meglio, la gamma dei lavori che si preferisce evitare si è molto ampliata. Ad esempio non si trova un cameriere o un cuoco italiano. E presto i figli degli immigrati, che hanno più «fame», faranno l’avvocato, il medico, e ovviamente il giornalista.

Un adolescente dell’Italia (e dell’Europa) di oggi è l’uomo più fortunato della storia. Anche se nato in una famiglia impoverita dalla crisi, ha infinitamente più cose e più opportunità di un ragazzo di qualsiasi generazione cresciuta nel Novecento.

Vive in una casa riscaldata, illuminata, con il bagno e l’acqua corrente, che i miei bisnonni da ragazzi avrebbero osservato con la bocca spalancata dallo stupore.

Ha un motorino o una macchinina o l’abbonamento a una rete di trasporti pubblici che nelle grandi città include la metropolitana, mentre i miei nonni erano troppo poveri per avere anche solo una bicicletta e pagarsi il biglietto della corriera.

Va al mare, in campeggio, in discoteca, all’estero su voli low cost, ai fast-food o nei ristoranti etnici dove mangia piatti esotici: tutte cose che i miei genitori non conoscevano o non potevano permettersi.

Ha la tv a colori con decine di programmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, un computer connesso potenzialmente con il mondo intero, il telefonino con cui scaricare qualsiasi canzone o film immaginabile, una varietà di social network per ritrovare i vecchi amici o entrare in contatto con gli sconosciuti. Noi, quando eravamo ragazzi tra gli anni 60 e 70, avevamo la tv in bianco e nero, aspettavamo con ansia (al Nord) il sabato sera per vedere i cartoni animati della tv svizzera, ascoltavamo per ore le prime radio libere nella speranza che trasmettessero una canzone familiare.

Ma ora è di moda il lamento: «Ci stanno rubando il futuro!». I ragazzi però dovrebbero sapere che il futuro è nelle nostre mani. In particolare nelle loro.