Giornalisticamente vivo sempre più avviluppato nelle «newsletter» (uso il termine inglese perché in italiano corrisponde a «bollettino» o «opuscolo», denominazioni purtroppo obsolete per la moderna selezione che ogni newsletter può presentare). Come spiega Wikipedia, nata in forma cartacea, oggi la newsletter viene indirizzata prevalentemente tramite posta elettronica come aggiornamento periodico, inviato da singole persone, aziende, enti (pubblici o privati), associazioni o gruppi di lavoro, per ragguagliare un determinato target di utenti, clienti o membri su avvenimenti o situazioni in settori precisi dell’informazione, oppure su specifiche attività economiche o sociali. Per dire: c’è una newsletter della città di Lugano che ogni venerdì informa sui posti di lavoro vacanti; c’è quella che presenta le offerte settimanali e le novità di Migros; e così informano anche tantissime altre aziende. Le newsletter più note, e per questo soggette a pagamento, sono quelle inviate da istituti finanziari, operatori professionisti o quotati analisti per guidare clienti e investitori sui mercati. Ma di recente si è intensificata anche l’offerta di singoli giornalisti che trattano temi specifici o conducono inchieste.
Quest’ultimo tipo di offerta è indirizzato non solo a chi ha un interesse particolare (politica, economia ecc.), solitamente legato al mondo mediatico, ma può diventare strumento di selezione e di riepilogo anche per chi non può o non vuole passare ore davanti al pc o sui social cercando aggiornamenti o opinioni sui fatti del giorno: se sapete distinguere l’informazione dal marketing, cioè dalla pubblicità, e volete scartare quanto non rientra nella vostra cerchia di interessi, le newsletter possono diventare un mezzo sicuro per orientarsi sul mare di informazioni che sgorga dal web. Basta iscriversi o abbonarsi, magari tenendo presente l’opportunità di confrontare diversi pareri (oltre a quelle che sono le fonti e le voci che sorreggono la vostra visione, è utile contemplare e valutare anche quelle che invece ne difendono o rappresentano altre) per avere un utile servizio a domicilio su come sta andando il mondo. Nel mio caso, ogni mattina, ancor prima di contattare le edizioni online dei giornali, il mio tempo di lettura inizia con una serie di «informatori» personali che trovo nella posta elettronica. Sono selezionati secondo i criteri citati in avvio, ma alla fine scatta comunque e sempre il solito «Attenti là fuori», l’avvertimento che nei telefilm polizieschi viene rivolto a chi inizia la giornata prima di partire in pattuglia. Anche una newsletter, come avvertono i dizionari, oltre che come forma di informazione, può essere sfruttata come mezzo di propaganda o di persuasione. Occorre pertanto tener presente che l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. E quello più temibile è costituito non tanto dalle «fake news», quanto dall’uso sofisticato o contorto che se ne può fare.
La riscoperta delle newsletter in ambito giornalistico è probabilmente una emanazione del fenomeno ormai inflazionato dei blog. Complice la ormai cronica crisi dell’editoria e del giornalismo, costellata da esperimenti e ristrutturazioni che quando non costano licenziamenti contribuiscono ad aumentare la falcidia dei posti di lavoro (e non solo per la rivoluzione digitale), molti giornalisti ormai da un decennio cercano alternative sulla rete del web. Poiché le varie le nicchie offerte da giornali online e riviste sono state inesorabilmente prosciugate da piattaforme digitali e applicazioni, ora si riscoprono le vecchie caselle di posta elettronica che, oltre a offrire un contatto diretto con i lettori, consentono anche un riparo dalle frecce avvelenate della moltitudine di hater e troller che la gratuità del web continua a generare inquinando tutto l’universo dell’informazione. Si sta insomma profilando un nuovo fenomeno mediatico che ricalca quella che nei paesi anglosassoni viene denominata «Stan culture», cioè «la forma più fedele e appassionata di fan – o lettore/lettrice digitale, in questo caso – disposta persino a pagare per seguire il suo beniamino». Nata come scappatoia utilizzata da famosi personaggi dello spettacolo per sottrarsi ai milioni di follower che intasavano e avvelenavano i loro siti su facebook, twitter o altri social, questa tendenza si è estesa anche al mondo mediatico, per ora limitata a newsletter di redazioni e giornalisti determinati ad affrontare anche la frontiera (non solo psicologica) del chiedere soldi. In Italia c’è chi trova appoggi nelle strategie editoriali (come nel caso del nuovo quotidiano «Domani» del finanziere De Benedetti) e chi cavalca forme ibride (centrate su abbonamenti e oboli volontari di sostegno, come fanno ad esempio Il Post e, formidabile «singolista», il suo vice direttore Francesco Costa). Sono ancora casi rari, veri battistrada. Consentono però di sperare che grazie alla riscoperta della posta elettronica, oltre a proiettare spiragli di luce nel buio della crisi dell’editoria, il fenomeno delle newsletter riesca finalmente a incentivare abbonamenti e fidelizzazioni nell’editoria, a difendere un giornalismo senza condizionamenti pubblicitari o politici.