Da sempre esistono, nell’ambito della fruizione della musica popolare, talune problematiche ormai annose, spesso fatte passare sotto silenzio nonostante gli effetti tutt’altro che positivi; e a parer di chi scrive, uno degli elementi di cui da tempo si tace riguarda, oggi più che mai, i prezzi dei biglietti dei concerti rock.
Ricordo bene come, nonostante lo status di squattrinata studentessa, nei miei anni giovanili io sia stata in grado di assistere a innumerevoli show – questo perché all’epoca era possibile acquistare un posto unico per un concerto di alto profilo spendendo l’equivalente di trentacinque o quaranta franchi. Oggigiorno, invece, una simile aspettativa risulta quantomeno irrealistica, grazie a una sorta di sopruso che va facendosi sempre più pervasivo, seppur nella più generale indifferenza; un’indifferenza forse dovuta proprio alla gradualità del fenomeno – un po’come quando, per inerzia, lentamente ci si abitua a qualsiasi cosa. Certo si è trattato di un processo graduale quanto subdolo, che nell’arco degli ultimi venticinque anni ha risparmiato soltanto i nomi meno conosciuti della scena underground; tanto che l’ultimo esempio risale ad appena pochi giorni fa, per la precisione al concerto di Bruce Springsteen svoltosi a Ferrara.
Infatti, sebbene mille polemiche abbiano salutato la scelta di ignorare il prolungato stato di emergenza causato dal maltempo, nessuno ha mostrato la minima indignazione davanti al fatto che un posto in piedi in uno show all’aperto, in cui gli spettatori si trovano notoriamente schiacciati nella ressa con i piedi nel fango, potesse arrivare a costare fino a centotrenta euro.
Così, sull’onda della constatazione di come questo 2023 veda tale fenomeno manifestarsi in modo ancor più spiccato, al punto da essere ormai dato per scontato (forse con la scusa di rimpinguare i guadagni dopo la pandemia?), ecco che tornano in mente gli avvertimenti di chi, un tempo, tentò di mettere in guardia il pubblico su questo scempio: come Tom Petty, uno dei pochi artisti di richiamo a mettersi in rotta con il monopolio dei box office statunitensi in protesta al rincaro dei biglietti. Lo stesso che nel 2002 incise The Last DJ, concept album all’epoca snobbato dalla maggior parte dei critici musicali proprio a causa del suo atteggiamento di aperta critica nei riguardi dell’intero establishment discografico. Uno dei brani più eloquenti del disco poneva infatti all’ascoltatore l’ironica domanda, «quanto sarai disposto a pagare per ciò che una volta ottenevi gratuitamente?», in riferimento proprio al vertiginoso aumento del costo dei biglietti – nello specifico, all’impressionante differenza di prezzo tra il biglietto per un concerto «di grido» e lo stesso biglietto acquistato prima che l’artista in questione divenisse una celebrità mondiale grazie all’appoggio delle lobby discografiche.
Perché se, da un certo punto di vista, è possibile accettare che il costo dei preziosissimi ticket aumenti in proporzione alla fama, riesce tuttavia difficile credere che cantanti miliardari, da decenni assurti allo status di leggende, possano essere tanto affamati di guadagni da spolpare il pubblico fino all’ultimo centesimo. E invece, ecco che quest’anno perfino Bob Dylan non si accontenta di vietare l’uso dei telefoni cellulari all’interno dei propri concerti, ma addirittura obbliga gli spettatori a spendere cinque euro a testa per il privilegio di sigillare ermeticamente i propri smartphone per l’intera durata dello show; e sorge spontanea la domanda se, fino a pochi anni fa, una simile prevaricazione sarebbe stata accettata con tanta benevolenza.
Anche perché quest’ormai inarrestabile avidità rivela, in realtà, un problema ben più grave: infatti, se è vero che i generi pop e rock sono da sempre giustamente definiti come «musica popolare» (ovvero, appartenente al popolo), l’impressione è che, andando avanti di questo passo, tale carattere finirà per essere spazzato via, cementando così l’idea che anche la pop culture sia ormai cosa elitaria, destinata solo a quelle scarne fette della popolazione definibili come «ricche», o quantomeno benestanti – in pieno sprezzo delle origini «dal basso» della musica di consumo.