È strano ma mentre Facebook e la Rete sembrano mostrarmi quanto siamo globalizzati, mobili e flessibili, tecnologici e connessi, la realtà, quella più prossima, spesso mi fa vedere quanto poco siamo resilienti e quanto invece tentiamo di resistere al cambiamento. Ho la percezione, e sono felice di sbagliarmi, che in giro ci sia una paura diffusa a lasciare quelli che fino a ieri erano i nostri punti fermi, quelli che hanno caratterizzato e plasmato la vita dei nostri genitori, per intenderci, e con i quali noi, dai quarantanni in su, siamo cresciuti.
Mi sembra che, seppur le nostre opzioni e le nostre opportunità si siano in molti casi moltiplicate, noi anziché abbracciarle, sceglierle, percorrerle, le scansiamo. Principalmente in due modi: rimanendo fermi, imbambolati e disorientati oppure ripiegandoci su noi stessi nel tentativo di rifiutare il nuovo che ci circonda voltandoci indietro per afferrare e trattenere ciò che fino a ieri ci dava sicurezza, stabilità e fiducia.
Noto in questo senso anche una certa, come dire, incoerenza, tra il dire e il fare, ad esempio sul lavoro. A parole le aziende di oggi, in particolare quelle attive nel campo della comunicazione, dell’informazione e dell’informatica sono tutte orientate o favorevoli ad introdurre modalità di lavoro più libere e indipendenti che rientrano sotto il cappello dello smart working. Ma a ben guardare, noto che più sei indipendente più vieni guardato con sospetto, come se fossi una meteora e sorgono domande del tipo «Ma sei qui o vai via?», «Da dove lavori?», «Da che ora a che ora?», «Ma non potresti venire in ufficio più spesso?», «Mi fai sapere dove sei, mi comunichi tutti i tuoi spostamenti?».
La lontananza molto spesso viene vissuta come un difetto, una mancanza anziché essere vista come una risorsa. Ma qui si riflette quello stesso meccanismo di pensiero che oggi va tanto di moda tra alcuni politici di grido: valorizzare il locale, ciò che è prossimo e guardare invece con diffidenza tutto ciò che è o proviene da oltre confine. Dove rimane allora l’importanza di una mente aperta, il valore di una persona flessibile, capace di adattarsi e organizzarsi in qualsiasi situazione? Dove rimane l’importanza dello scambio e della contaminazione con altre culture? Anche la diversità sul posto di lavoro, e non parlo solo di genere ma anche di cultura e di etnia, è ancora lontana dall’essere raggiunta e lo dicono i dati.
Secondo l’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, il 67 per cento delle aziende ha già attivato qualche iniziativa di Smart working, ma ad oggi solo l’8 per cento adotta realmente un modello di Smart Working, cioè ha sviluppato un piano sistemico introducendo strumenti tecnologici digitali, adeguate policy organizzative, nuovi comportamenti organizzativi e layout fisici degli spazi.
La resistenza inutile dirlo è di tipo culturale. Bigna Salzmann organizzatrice della «Work smart week» racconta come in Svizzera, rispetto ad altri paesi, possediamo molti più strumenti per inserire un lavoro più flessibile ma come la resistenza culturale, soprattutto tra i manager, rallenti molto questo processo. E mi è tornato in mente un saggio dal titolo Il futuro come fatto culturale, nel quale Arjun Appadurai docente di Media, Culture and Communication alla New York University, considerato uno dei massimi studiosi di globalizzazione, mass media e processi migratori, sottolinea come sia vitale ridefinire le categorie di lettura del mondo presente nel tentativo di studiare la dimensione dell’avvenire inteso non come uno scenario prossimo venturo ma come un elemento immaginario mediante il quale le comunità, i gruppi, le collettività elaborano strategie di adattamento e di sopravvivenza.
Ecco, credo che qui risieda la sfida per ognuno di noi, nella ridefinizione delle categorie di lettura del mondo che è profondamente cambiato e ancora cambierà. E se vogliamo che avvenga in meglio dobbiamo indossare nuove lenti, essere pronti a comprendere nuovi significati e abbracciare nuovi scenari. Non sarà facile ma certo ne varrà la pena.