La chiusura delle frontiere ha fatto felice la compagnia dei sovranisti e dei protezionisti, ma nel contempo ha evidenziato i colli di bottiglia in cui si è infilata la maggior parte delle economie occidentali cavalcando il processo di delocalizzazione delle attività considerate non più redditizie. Purtroppo tale delega ha accentuato l’intreccio delle dipendenze, rendendo il «primo mondo» vulnerabile, sia sul piano merceologico, sia sul piano della forza-lavoro. Molti settori produttivi si sono improvvisamente ritrovati sguarniti, dall’agricoltura alle cure ospedaliere. Le autorità di mezzo continente hanno dovuto istituire appositi corridoi con l’Est europeo o con alcune regioni africane per poter reclutare la manodopera di cui avevano urgentemente bisogno: braccianti, raccoglitori, badanti, professionisti della sanità. E infine l’esercito degli invisibili e degli innominabili, i «sans-papiers».
Fino all’altro ieri sembrava funzionare alla perfezione il modello economico fondato sulla bipartizione delle attività: da un lato la produzione di merci a basso valore aggiunto, da collocare nelle aree emergenti; dall’altro i settori strategici di «ricerca e sviluppo», da trattenere in patria. «Ideato nell’Ue (o negli Usa) e prodotto in Cina», sta tuttora scritto sugli imballaggi dei nostri computer e dei nostri telefonini. La divisione internazionale del lavoro si reggeva, e in buona parte si regge ancora, sulla separazione braccia-mente: nel continente asiatico l’operaio – spesso l’operaia – a basso costo, nei paesi evoluti gli ingegneri, gli informatici e i designer ben retribuiti, contesi dalle migliori «corporations».
Anche il nostro cantone è cresciuto sulla base di un mercato del lavoro frazionato: i frontalieri e gli autoctoni. Il primo balzo si è avuto negli anni 60, con la concentrazione del tessile lungo la fascia di confine. La possibilità di poter contare su maestranze provenienti dalle vicine province italiane rese il Mendrisiotto un’ubicazione ideale per una miriade di fabbrichette, spesso filiali di grandi gruppi d’oltralpe. Questo sviluppo, assieme alla parallela fuga dei capitali dall’Italia (si era negli anni dei governi di centro-sinistra), permise al Ticino di acciuffare il treno del benessere. Pian piano la scala sociale andò modificandosi, allargandosi al centro. La transizione verso il terziario, ossia verso l’economia dei servizi (banche, assicurazioni, trasporti, la galassia degli impieghi statali e parastatali), rese possibile la formazione di un robusto ceto medio, le cui ambizioni non erano più nel manufatturiero (da lasciare appunto all’elemento straniero) ma nell’universo dei colletti bianchi.
Il secondo balzo è avvenuto in tempi recenti. Anche qui il Ticino – come del resto in tutta la Confederazione – ha potuto beneficiare della recessione e delle incertezze regnanti altrove, specie dopo il tracollo finanziario del 2007-2008 – per attirare capitali alla ricerca di porti sicuri. Di qui un incremento costante del ramo immobiliare, a conferma del detto francese «quand le bâtiment va, tout va». Il mattone dunque come rifugio (per gli investitori) e come occasione di lavoro per un buon numero di liberi professionisti. Ma ecco il suo rovescio: un settore che senza l’apporto degli edili frontalieri cesserebbe di esistere.
D’altra parte, la consapevolezza di tale dipendenza da fattori extra-nazionali era già ben presente nella prima iniziativa Schwarzenbach, giunta in votazione mezzo secolo fa, il 7 giugno 1970. Nel testo si diceva infatti che dai provvedimenti che la Confederazione avrebbe dovuto adottare per limitare la popolazione straniera al 10% del totale (Ginevra esclusa) non rientravano né i frontalieri né gli stagionali (e nemmeno gli scienziati e il personale occupato negli ospedali). Alla frontiera spettava il ruolo di paratia, a immagine di un sistema idraulico applicato ai torrenti per regolare afflusso e deflusso delle acque, in base alle esigenze e alle urgenze del momento.
Il trattato di Schengen aveva archiviato questo sistema di selezione all’ingresso, ma il virus l’ha riportato in vita. Per quanto tempo non si sa. E nemmeno si sa quando la libera circolazione delle persone riprenderà nel quadro normativo stabilito nell’era pre-pandemica. Quanto è successo deve comunque interrogare la società ticinese, indurla a riflettere sui meccanismi che la sorreggono e la condizionano nel suo funzionamento sociale ed economico, al riparo da squilibri e da improvvisi scompensi. E qui un ripensamento del mercato del lavoro e dei percorsi formativi, in particolare di quelli professionali, pare ormai non più differibile.