La nuova religione meritocratica

/ 28.06.2021
di Aldo Grasso

È da poco uscito un libro molto interessante, La tirannia del merito di Michael J. Sandel, professore di Filosofia politica e Teoria del governo alla Harvard University. Siamo abituati a pensare che una società meritocratica sia la società giusta. Ma non di rado, dietro all’idea del merito, si nasconde un inganno. Senza pari opportunità, vincerà sempre chi ha più mezzi.

Chi perde, invece, potrà incolpare solo sé stesso. Secondo Sandel, c’è un’idea molto radicata su entrambe le sponde dell’Atlantico: chi lavora sodo e rispetta le regole avrà successo e sarà capace di elevarsi fino a raggiungere il limite del proprio talento. È una retorica dell’ascesa, che anche il Partito democratico americano e i partiti della sinistra moderata europea hanno scelto come soluzione ai problemi della globalizzazione, primo fra tutti la disuguaglianza. Se tutti hanno le stesse opportunità, allora chi emergerà grazie ai propri sforzi o alle proprie capacità se lo sarà meritato. Se invece non riuscirà a emergere, la responsabilità sarà soltanto sua. È questo il lato oscuro dell’età del merito.

La meritocrazia è una distopia. Nel senso più stretto ed etimologico del termine. Quando Michael Young, nel 1958 pubblicò, non senza difficoltà, il suo The Rise of the Meritocracy, nelle intenzioni dell’autore il racconto doveva rappresentare l’evoluzione dell’Inghilterra del 2034, una società nella quale la tradizionale divisione in classi della popolazione (a partire dall’aristocrazia) veniva sostituita con una divisione basata sul merito, definito dalla combinazione di intelligenza e impegno.

Come andarono le cose? La società organizzata secondo queste nuove linee guida finisce per dividersi in due tronconi: quelli che hanno un quoziente intellettivo superiore a 125 e tutti gli altri. I primi detengono il potere e tiranneggiano i secondi, giustificando la loro posizione con la superiore capacità di comprendere e agire. Il divario fra queste società parallele aumenta sempre più, fino al punto in cui il popolo umiliato si ribella e dà luogo a una rivolta. Sollevazione non solo comprensibile, secondo Young, ma perfino ragionevole: i meritevoli hanno finito per comportarsi esattamente come gli aristocratici. L’identità acquisita ha soppiantato l’identità ereditata, ma non si è liberata dei suoi vizi.

Applicando acriticamente la retorica della meritocrazia, Young voleva dimostrare che se dobbiamo premiare, socialmente, economicamente, politicamente, chi ce l’ha fatta, il passo successivo è punire chi non ce l’ha fatta.

Oggi sono in molti a sostenere che il mito della meritocrazia rischia di essere una trappola, come sostiene anche Daniel Markovits, professore a Yale e autore del libro The Meritocracy Trap (La trappola della meritocrazia, Penguin Press): «(La meritocrazia) rifà la vita come una competizione senza fine che assicura i ricchi ed esclude gli altri, incoraggiando lo sviluppo del “capitalismo umano”, il regime economico in cui la formazione e le competenze dei lavoratori sono la più grande fonte di ricchezza della società. Questo sviluppo porta le élite a investire nelle scuole per i propri figli, in modo che l’istruzione si concentri nelle famiglie ricche. Allo stesso tempo, ristruttura il lavoro piegando l’innovazione tecnologica per favorire proprio quelle professionalità che solo l’istruzione d’élite fornisce. Queste trasformazioni precludono alla maggior parte delle persone – poveri e classe media – un accesso significativo ai vantaggi sociali ed economici».

L’idea che ciascuno venga ricompensato per ciò che fa, e questo costituisca un criterio portante per l’organizzazione della società, è di per sé un bene, ma nell’eseguire questa trasformazione non si sono tenuti adeguatamente in conto gli ultimi, verso i quali i meritevoli hanno pur sempre delle responsabilità. Si tratta, insomma, di un problema di giustizia distributiva che necessita di un correttivo.

La società meritocratica è davvero l’ideale di una società buona e giusta? Un sistema meritocratico dovrebbe prevedere pari opportunità e premiare chi quelle opportunità le ha sfruttate meglio con l’impegno, lo studio e il lavoro, ma esistono davvero queste pari opportunità? Chi nasce in una famiglia ricca ha le stesse opportunità (o almeno delle opportunità simili) a quelle di chi nasce nella povertà? No.

C’è il grosso rischio che la meritocrazia stia diventando la nuova religione del nostro tempo, una religione però priva di misericordia: in una società meritocratica, competitività e aggressione trionfano a tutto svantaggio di doti come la gentilezza e il coraggio delle persone, la loro immaginazione e sensibilità, simpatia, mitezza e generosità, mentre giovani privi di esperienza, saggezza e maturità, possono vantarsi dei loro meriti e spadroneggiare su persone più mature ma meno privilegiate.