Nell’antichità era un mostro: nel sesto libro dell’Iliade Omero descrive la Chimera come un animale ibrido, con testa di leone, corpo di capra, coda di serpente; dalla bocca mandava fuoco. Nella Teogonia Esiodo la descrive con tre teste – sempre di leone, di capra e di serpente – e così compare nella famosa scultura etrusca in bronzo risalente al V secolo a.C. Da quei tempi lontani il mostro è cambiato, si è evoluto in molteplici forme secondo l’immaginazione umana; ma, soprattutto, il suo nome è divenuto sinonimo di un sogno, un desiderio irrealizzabile, un’illusione. «Inseguire chimere»: è ciò che si dice di chi coltiva sogni impossibili, fantasie irrealizzabili, progetti utopici. Ebbene, è questa commistione di mostruosità e desideri che mi richiama alla mente il nostro tempo, che ormai da molti studiosi è definito il tempo del «postumano».
Infatti: innumerevoli chimere noi le abbiamo realizzate, anche più di quante siano state sognate in passato; e, soprattutto, noi stessi siamo diventati chimere. L’ibridazione crescente tra la macchina e l’uomo, il dilagare delle tecnologie, hanno modificato non solo il modo di vivere, ma l’immagine stessa dell’uomo. Immaginiamo che un uomo dell’Ottocento potesse vedere un motociclista, con tanto di casco, a cavallo di una Harley-Davidson: certamente sarebbe stato terrorizzato dal rombo del motore, dalla velocità della corsa, e non avrebbe pensato a un uomo, ma ad un mostro, un centauro (come chiamiamo noi oggi un motociclista, evocando un altro mostro mitologico).
La tecnica ci ha permesso di dominare il mondo. Il millenario progresso dell’uomo è avvenuto passo passo grazie a invenzioni tecnologiche, dalla ruota al mulino, dalla vela all’archibugio, dalla macchina per cucire all’aereoplano… Ogni conquista ha costituito un’acquisizione di potere, un passo verso l’onnipotenza. Sono stati passi molto lenti per la quasi totalità della nostra storia; oggi invece si va di gran corsa. Una corsa che comporta vantaggi straordinari: per esempio, leggo che ci si sta avvicinando a una vera ibridazione dell’uomo con la macchina per risolvere drammatici casi di tetraplegia. Un tetraplegico potrebbe indossare un esoscheletro che fungerebbe da robot, comandandolo grazie agli impulsi cerebrali: muoverebbe dunque gli arti secondo la sua volontà e ritroverebbe la libertà di movimento da tempo perduta. Del resto, ha già suscitato clamore il caso di Oscar Pistorius, l’atleta privo di gambe fin da piccolo, che nel 2012 ha potuto partecipare a una gara olimpionica di corsa grazie a protesi in fibra di carbonio in sostituzione degli arti mancanti.
È però un dato di fatto che più la nostra vita s’intreccia con la tecnologia, più ne diventiamo dipendenti. Ricordo quando, lo scorso anno, per quasi un giorno un guasto tecnico mi tolse la corrente elettrica di casa: niente più computer, televisore, forno elettrico, macchina da caffè. Trovai una candela, sufficiente solo per un po’ di chiarore: ma era come essere sprofondato in un mondo diverso, estraneo e ostile. Un disagio leggero, tutto sommato; niente di paragonabile al gigantesco blackout che nell’agosto del 2003 lasciò senza luce 50 milioni di statunitensi, provocando morti e feriti, ondate di panico e atti criminali favoriti dal buio. E talvolta altri casi, come l’esplosione del reattore di Chernobyl, ci avvertono che ogni conquista ha il suo rovescio, ogni potere acquisito può sempre ribaltare il bene in male.
La tecnologia moltiplica dunque i nostri poteri, ma crea anche una terribile dipendenza. L’uomo-chimera sarà sempre meno capace di rinunciare alle tante protesi delle quali si circonda, che lo mettono in grado di parlare e di vedere da un capo all’altro del globo, di volare, di viaggiare senza fatica, di sollevare pesi enormi, perforare montagne, illuminare le notti. E le innovazioni tecnologiche continuano ad avanzare e ad evolvere senza sosta e credo non avesse torto Arnold Gehlen quando sosteneva che ogni civiltà ha sempre sviluppato delle tecniche, ma che tra il passato e il presente c’è una sostanziale differenza: l’uomo antico maneggiava le proprie tecniche essendone cosciente, mentre l’uomo moderno viene maneggiato da queste tecniche senza esserne cosciente. Così, affiora il sospetto che la straordinaria libertà che ci viene dalla crescente automazione adombri il lato oscuro della splendida chimera. È questa la tesi di Steven Rose: siamo diventati irrimediabilmente imprigionati in un mondo in cui siamo alla mercé delle nostre macchine.