La bellezza è sempre stata la mia ossessione segreta. La bellezza femminile. Mi affascinava come la fortuna, come il genio. La consideravo fuori dal sistema democratico. Iniquamente distribuita. Irraggiungibile. Il valore che le attribuivo era proporzionale alla sua rarità.
Mi ricordo di Norberta Biasin ancora oggi. Al liceo Gioberti, Torino. Norberta era alta e diafana, pelle di alabastro, occhi celesti, lunghi capelli biondi. Arrivava sempre in classe in ritardo. I professori non la sgridavano, la guardavano camminare lenta verso il suo banco, dando a tutti la possibilità di ammirarla. Alle assemblee, alle riunioni, si era negli anni della rivoluzione studentesca, taceva annoiata, eppure tutti erano ai suoi piedi. A me, che non ero bellissima, toccava parlare. Dire la cosa giusta al momento giusto. E dirla bene. Come i maschi. Adesso le belle ragazze sono una maggioranza. Più ci si allontana dalla povertà o dalle guerre, più la razza migliora. Le giovani sono quasi tutte carine, anche se omologate: capelli piastrati, occhi bistrati, bocche disegnate, vitino e tettone, tacco 12 e jeans incollato al deretano. Ai miei tempi era richiesta la bellezza naturale. O eri bella o eri brutta. Fine. Adesso la bellezza è una app: impari a truccarti, ti compri la mastoplastica additiva, ti tingi i capelli quando sei ancora alle medie. Oggi va la bellezza calcolata, apparecchiata, fasulla.
Quale sarà il modello di bellezza del futuro? Ho letto con entusiasmo crescente la Storia della Bellezza, di Jean Vigarello proprio perché, secondo me, la bellezza non ha storia. La bellezza «è», come la poesia, un talento, un dono, non si impara e non si ottiene. Quella che si può raccontare, e Vigarello lo fa in modo magistrale, è la storia del rapporto che tutti noi, animali sociali, abbiamo avuto abbiamo e avremo con la bellezza. I mille tentativi di descriverla, di definirla, di adeguarla, di usarla, di venderla, di insegnarla. Vigarello racconta che nel Rinascimento esisteva soltanto la parte superiore del corpo. Il volto, il collo, il vitino. La bellezza non poteva essere disgiunta dalla classe (portamento) nè dalla modestia (pudore). Il fornitore della Real Casa, in materia di bellezza, era Dio, niente di meno. Gli occhi denotavano un rapporto diretto con il fornitore supremo: erano pura luce, grazia immacolata e universale. Il corpo non doveva essere mai neppure nominato. La donna bella era statica, aristocratica.
Già dal secolo seguente c’è più attenzione al movimento, si parla dell’incedere. Ma le gambe sono sempre sostegno del busto, come il gambo per i fiori, sono occulte putrelle d’alabastro dalla funzione puramente meccanica. Non si vedono, non si nominano. Per vederle dobbiamo aspettare le spiagge. E siamo già al diciannovesimo secolo. Il portamento ora è la schiena diritta della sicurezza borghese. Siamo passati dal corpo nascosto al corpo svelato. E oggi siamo all’ostentazione.
Gli occhi, che sono stati luce degli astri e specchio dell’anima, diventano profondità psichica e infine sguardo, e quando ciò accade, la festa dell’ammirazione è finita. La bellezza che, con canoni diversi da un’epoca all’altra, ha fatto della donna l’oggetto del turbamento e poi della sublimazione e poi del desiderio, può sopportare il peso della donna soggetto? La donna che guarda è ancora una donna da guardare? Spesso è vissuta come una minaccia.
All’inizio del secolo scorso nasce la «maschietta» con i capelli tagliati corti, snella, il collo scoperto, l’occhio impertinente. Può essere glorificata (senza la collaborazione di Dio), ma può anche essere rimessa al posto suo, punita per la sua imprudente ostentazione di scelte di vita da emancipata. E come si puniscono le donne? Imponendo loro un modello di bellezza a cui cercheranno di adeguarsi con sacrifici e frustrazioni.
Quale strumento migliore dell’obbligo d’essere belle per tenerci sotto, schiave delle apparenze, costrette a comprare belletti, a imporci diete, quando non a ricorrere al bisturi, e sempre a rimbecillire di dolore per i guasti dell’età? Prima la bellezza femminile doveva allietare l’uomo, poi doveva spingerlo a procreare, quindi ha dovuto impedire alle donne di raggiungerlo. Come? Costringendo le ragazza a perdere tempo energia e intelligenza per adeguarsi ai canoni di bellezza del secolo. Mentre suo fratello studiava, lei buttava ore davanti allo specchio. Lui invecchiando migliorava, lei scadeva come merce avariata: la bellezza sfiorisce, l’intelligenza no.
La perdita di credibilità del Grande Racconto (la religione, l’ideologia) ci condanna a vivere nel mondo in cui viviamo. La caduta delle trascendenze ci consegna alla dittatura del nostro piacere. Di questo passo con le stampanti 3d e i prodigi di medicina e chirurgia estetica, diventeremo, nel corso di questo secolo, tutti sani e belli e giovaniformi, ma la bellezza, diventata di massa, avrà ancora la funzione di stupirci?
Norberta Biasin, croce e delizia della mia prima giovinezza, presto potrà essere costruita in laboratorio. Potranno sfornarne plotoni di Norberte Biasin, tutte belle uguali. Bionde alte slanciate col nasino all’insù e il vitino sottile. Sull’incanto, allora, trionferà la noia.