La Svizzera ha davvero gettato alle ortiche la sua plurisecolare neutralità, come hanno sostenuto, compiaciute, molte testate estere? Sì, ma solo in parte. Il governo questa volta ha reagito assai rapidamente, allineandosi alle sanzioni approntate dall’Unione europea. Non poteva non farlo, sia dal punto di vista etico (si sarebbe di fatto schierato con l’aggressore), sia dal punto di vista politico. Dopo la caduta del muro di Berlino, anche la Confederazione ha dovuto fare i conti con uno scenario instabile e mutevole. Il grande protettore, gli Stati Uniti, ha stretto i bulloni su vertenze ch’erano rimaste a lungo congelate nella cella frigorifera della guerra fredda, come il comportamento delle banche e il silenzio sugli anni bui della seconda guerra mondiale: incameramento degli averi ebraici, fornitura di armi al Terzo Reich, riciclaggio dell’oro trafugato dai nazisti. Com’è noto, tutto questo mise all’angolo il Consiglio federale, che dovette, per salvare sé stesso ma soprattutto il suo tessuto economico-finanziario, istituire una commissione d’inchiesta composta di storici per far luce su queste pagine ingloriose (commissione Bergier). La macchia è tuttavia rimasta.
Anche nella battaglia ideologica (anticomunismo), la Svizzera non serviva più; anzi, a decorrere dagli anni ’90 si è ritrovata sempre più sola nell’Europa in costruzione, alle prese con «amici» che non vedevano l’ora di collocarla sulla lista nera dei paradisi fiscali, sottraendole la sua arma più efficace, il segreto bancario. Improvvisamente anche l’alleato americano ha rivendicato e ottenuto dal sistema bancario elvetico quanto aveva in mente di chiedere, con le buone ma spesso con le cattive (multe salatissime e minaccia di estromissione dal mercato).
Sul piano retorico e patriottico, la neutralità conserva una grande forza nella coscienza dei cittadini. È tuttora convinzione unanime che abbia salvato la Svizzera da due spaventose guerre mondiali. Ma è un’opinione che astrae dai rapporti di forza, dalla politica di potenza con le sue regole ferree («Not kennt kein Gebot», ossia la necessità non conosce legge). Il neutrale Belgio non fu risparmiato dalla Germania guglielmina in marcia verso Parigi nell’agosto del 1914. La Svizzera non avrebbe avuto i mezzi per opporsi militarmente al Kaiser: semplicemente l’occupazione del suo territorio – che avrebbe avuto come conseguenza lo smembramento della Confederazione – non rientrava nei piani di Berlino. La necessità di creare uno stato-cuscinetto nel cuore del continente era risultata già chiara agli occhi di Napoleone.
Anche Giuseppe Motta, all’indomani del conflitto, si rese conto che la neutralità andava rivista, che l’interpretazione restrittiva risalente al periodo prebellico non sarebbe stata più accettata dalla comunità internazionale. Di qui il suo impegno per far sì che anche la Svizzera aderisse alla Società delle Nazioni nel 1920. Sebbene avallato da una maggioranza non schiacciante (56,3% contro 43,7%), il decreto federale permise a Motta di scansare il rischio isolamento e di aprire una nuova fase, detta della «neutralità differenziata» («differentielle Neutralität»). L’accordo prevedeva che la Svizzera partecipasse ai provvedimenti di natura economica, ma non ad iniziative di tipo militare. Le autorità federali preferirono comunque rimanere guardinghe e ai margini, privilegiando la mediazione e l’arbitrato: un ruolo che recuperava la tradizione umanitaria della Svizzera, fin dalla nascita della Croce Rossa. Non fu facile, per Motta, conservare l’equilibrio su quest’esile filo. E difatti, alla prima grave crisi con la Germania nazista e l’Italia fascista, la Svizzera decise di ritornare alla «neutralità integrale».
Il caso ha voluto che il concetto di «neutralità differenziata» sia rientrato in scena per opera di un altro ticinese, Ignazio Cassis, titolare – come Motta dopo la Grande Guerra e fino al 1940 – del Dipartimento che si occupa degli affari esteri (già Dipartimento politico). In un recente articolo pubblicato sulla NZZ (4 marzo), l’ex Consigliere federale Kaspar Villiger ha ripreso la definizione alla lettera, spiegando che «in un contesto moderno e tecnologico, un piccolo stato può far valere la sua capacità difensiva solo in alleanza con Stati più grandi. Parrebbe quindi utile orientarsi al modello di neutralità che avevano adottato gli antichi Confederati: in caso di conflitti interni (tra democrazie occidentali, improbabili ma non impossibili) ed esterni (oltre i confini dell’Europa), la Svizzera rimarrebbe neutrale nel senso tradizionale del termine. Ma se l’Europa dovesse subire un attacco dall’esterno, allora scatterebbe la solidarietà con l’aggredito. E questo obiettivo si potrebbe conseguire stipulando un patto con la Nato, una cooperazione che tuttavia escluderebbe la partecipazione a operazioni offensive condotte al di fuori dello spazio europeo». Villiger chiama questa strategia «differentielle Neutralität». Motta avrebbe approvato.