La montagna disincantata

/ 07.12.2020
di Orazio Martinetti

Fuga dalla città. Incalzati dalla pandemia, molti raggiungono le baite che dopo il tramonto della civiltà contadina sono state trasformate in seconde case, confortevoli e riscaldate. Nella loro corsa i cittadini riscoprono la montagna intesa come rifugio dai guasti prodotti dalla società urbana. Facebook rigurgita di pascoli, vette, sentieri, laghetti, scorci incantevoli, e di sempre più stremate lingue di ghiaccio. Luca Mercalli, climatologo ben noto anche da noi, ha pubblicato da Einaudi un volume emblematico: Salire in montagna. Sottotitolo: «prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale». Per dire che solo la montagna potrà salvarci se sapremo accoglierla e rispettarla. Reto Roedel, scrittore e critico letterario retico oggi dimenticato (1898-1991), collocava nelle Alpi la sorgente morale da cui traeva energia il popolo svizzero: «Dalla montagna venne la nostra forza. Nella montagna ci ritroviamo. Eh sì, perché possono essersi trasformate le case degli uomini, moltiplicate le strade, qualche foresta può avere ceduto ad altre colture, ma se leviamo lo sguardo in alto, siamo certi di posarlo esattamente sugli stessi profili che furono diletti ai nostri babbi e ai nostri nonni. [...] Nella montagna troviamo e foggiamo la continuità della nostra storia».

Roedel scrisse queste righe per un ciclo di conferenze tenute in Italia nel dicembre del 1938, in piena epoca fascista. In quell’occasione l’autore non voleva, e né poteva, muovere accuse al regime mussoliniano; a lui importava mettere in luce e dipanare i fili di questo retaggio iconico, di questo viscerale attaccamento alle Alpi: tradizione che poteva contare su pensatori illustri, dal von Haller a Rousseau, da Scheuchzer a De Saussure. Proprio in quegli anni, con la fondazione della Pro Helvetia e, in campo militare, con il perfezionamento del ridotto alpino, le autorità federali elevavano il San Gottardo a gigante buono e a genio protettore della neutralità del paese. Ma in quest’operazione, nota come «difesa spirituale» (braccio culturale della mobilitazione in armi), gli intellettuali d’indirizzo elvetista poterono far leva su un’eredità plurisecolare, che affondava le sue radici nel Settecento, il secolo delle spedizioni alpinistiche e delle indagini naturalistiche, dalla botanica alla mineralogia.

Nel secondo dopoguerra, il paesaggio mentale formatosi nel clima dell’assedio bellico è stato sottoposto a profonda revisione, come il lettore potrà verificare scorrendo i saggi che il coordinatore del Laboratorio di storia delle Alpi, Luigi Lorenzetti, ha raccolto nel volume Clio nelle Alpi, appena pubblicato dall’editore Dadò. Tuttavia non è mai scomparso del tutto, e anzi riaffiora con regolarità sia nelle narrazioni patriottiche delle formazioni nazional-populiste (evidentemente consapevoli del fascino che il mito alpino tuttora esercita nell’immaginario collettivo), sia nelle campagne per la difesa delle Alpi dal traffico e dalla cementificazione promosse dalla sinistra ecologista. La catena alpina è così diventata crocevia di ideali e interessi, sorretti da movimenti spesso estranei alle comunità montane, eppure influenti e capaci di segnarne il destino (v. insediamenti destinati al jet set internazionale, residenze secondarie, gestione dei predatori, innevamento artificiale, elettrodotti eccetera).

Osservare le terre alte dal basso, ossia dai centri urbani congestionati e frenetici, non è come abitarle quotidianamente, affrontare stagione dopo stagione le attività agresti con le loro asprezze. Entrare in una cabinovia superequipaggiati non è come alzarsi alle prime luci dell’alba per governare le bestie. Se vogliamo che la montagna continui a vivere occorre riorientare lo sguardo, e cercare, in primo luogo, di favorirne il ripopolamento. La rigenerazione del substrato demografico è condizione indispensabile per il successo di ogni iniziativa. Purtroppo l’esodo rurale e l’invecchiamento degli autoctoni ha privato i villaggi di risorse preziose, sia nell’imprenditoria, sia nella manutenzione dei beni comuni. Il Ticino non è ancora un’agglomerazione unica e continua, una macchia d’olio in espansione, come si è soliti dire e rappresentare in multicolori cartografie: è tuttora, in buona parte, valle, bosco, pascoli, piccoli nuclei aggrappati ai versanti che si animano solo nei mesi estivi. Considerare questa parte del cantone solo come un provvidenziale ricetto per sottrarsi alla «malitia temporum» ricalca una mentalità neo-coloniale: vuol dire ignorarne le esigenze vitali, i bisogni di coloro che, fra mille difficoltà, non intendono cedere al richiamo della pianura. È compito della politica non dimenticare questo Ticino rimasto ai margini eppure determinato a resistere.