La moda: vecchi vizi e nuove virtù

/ 08.03.2021
di Luciana Caglio

Milano non molla. Confermando una tradizionale efficienza di stampo lombardo, abbinata ad ambizioni internazionali, ha ospitato la «Fashion Week», anche alla fine di quest’insolito febbraio. E, per forza di cose, adeguandosi alle circostanze. Proprio una manifestazione che aveva portato nelle strade la moda, con i suoi protagonisti, ha dovuto rinunciare al suo obiettivo: trasformare un appuntamento economico settoriale in incontro aperto al pubblico, una sorta di kermesse metropolitana, per tutti. Non però al riparo da qualche incidente. Capitava, infatti, che modelle, fotografi, invitati vip venissero accolti dai fischi dei contestatori di turno. Rischio, adesso, tristemente impossibile. Quell’incontro popolar-mondano, affollato e rumoroso, sopravvive in versione virtuale, termine con cui si definisce un’opportunità tecnologica che rimane un ripiego. Se ne sono resi conto gli addetti ai lavori, in primis giornalisti e giornaliste, privati del contatto diretto con la realtà: abiti indossati da modelle in carne e ossa che sfilano davanti osservatori e giudici in carne ossa, in un’atmosfera pervasa da umori e malumori veri. Tutto ciò sostituito dalle immagini di uno spettacolo digitale da osservare e valutare in solitudine, senza il supporto di scambi d’opinione, di applausi o di aperte condanne.

Comunque, anche questo spettacolo, visto da pochi (a Milano su 685 sfilate, soltanto 2 «live») ha trovato ampio spazio sulle pagine dei quotidiani, in particolare italiani. Le sfilate fanno sempre notizia, almeno sul piano visivo. Infatti, le immagini parlano da sole. E, per lo più, sconcertano. Propongono figure di donne, e negli ultimi anni anche di maschi, in tenute grottesche. Fogge, colori, accostamenti da costumi di carnevale, piuttosto che capi funzionali, ispirati alle necessità quotidiane e al buon gusto, che è mutevole, ma esprime pur sempre un’esigenza estetica, qualcosa che dovrebbe migliorare il nostro aspetto. Ora, nei confronti di queste esibizioni estemporanee, i competenti, in particolare le inviate delle testate che contano, evitano di affacciare critiche. È una forma di consenso che ha aperto interrogativi imbarazzanti. Secondo un’indagine, condotta recentemente dal «New York Times», e ripresa in Italia da «Il Foglio», dietro questo compiacente silenzio, c’è un folto sottobosco di favori che i produttori di moda assicurano alle croniste, in forme diverse. Si va dalla borsa di pelle pregiata, dall’abito firmato al volo in prima classe e relativo soggiorno in un «5 stelle», per assistere a sfilate in ogni parte del mondo, e si arriva a regali molto più consistenti, un appartamento a Manhattan o un villino in campagna.

Si tratta della denuncia, per altro giustificata, di un malcostume che forse ha ramificazioni anche nostrane. Tenersi buono un direttore di giornale o di Tv o una redattrice può servire. E, sino a una certo punto, rispetta le regole del gioco. Lilly Gruber conduce con grande professionalità «8 ½», indossando ogni sera una giacca diversa, firmata Armani. Nulla da ridire, la cosa è nota. Con ciò, la moda continua a essere un ambito, bersaglio di condanne morali, di tipo diverso. Quella tradizionale, di matrice religiosa, rivolta soprattutto alla donna, facile vittima di futilità e vanità. E quella più recente, di tipo consumistico-ambientale: armadi troppo pieni di capi superflui, comprati alla rinfusa. Un culto dell’abito che, secondo gli psicologi, contribuisce al culto di sé, esasperando l’egocentrismo.

Al di là di queste condanne, del resto tutt’altro che nuove, si trascura l’effetto consolatorio dell’acquisto di un prodotto, in apparenza irragionevole. Si tratta di un aspetto emerso durante il lockdown. La chiusura dei negozi, le vetrine nascoste dalle saracinesche, la soppressione dei momenti d’incontro, al ristorante, a teatro, ai concerti, sugli spalti degli stadi, in viaggio, hanno conseguentemente cancellato il bisogno di adattare il guardaroba a bisogni differenziati. Privandoci di una sensazione primaria: trovarsi a proprio agio, secondo le stagioni, le situazioni e le esigenze della propria mobilità fisica. Proprio in questa direzione si è mossa la moda, negli ultimi anni, sviluppando i cosiddetti tessuti «smart», cioè intelligenti, in grado di proteggere dal caldo, dal freddo, dal sudore. Al nostro servizio, e non viceversa.