Quali fattori cementano la coesione nazionale? In parole più semplici, che cosa tiene assieme un paese come la Confederazione elvetica, questo vetro policromo di lingue, religioni, culture, mentalità? L’interrogativo è affiorato spesso nella discussione sulla «no Billag». Quasi tutti gli interlocutori hanno riconosciuto che la Società svizzera di radiotelevisione (Ssr) partecipa in modo massiccio, attraverso vari canali, ad irrobustire il senso di appartenenza, quell’«idée suisse» che la stessa Ssr aveva posto alcuni anni fa al centro della sua ragione d’essere.
Forse si esagera nell’attribuire alla radiotelevisione questo compito, questa missione salvifica. Ma è pure vero che i collanti che in passato con i loro lacci e gancetti contribuivano a stringere il corsetto di mamma Elvezia mostrano segni di stanchezza, e pure di usura: i partiti, le associazioni di vertice («Spitzenverbände»), le società studentesche, l’esercito... Perfino due pilastri come la posta e la ferrovia stanno scendendo nella scala dei valori: non sono più considerate aziende sulla cui base alimentare l’orgoglio patrio.
Che cosa resta, allora? Agli occhi dei materialisti il coagulante principale rimane il benessere, una ricchezza che non rimane tutta nelle mani di pochi cantoni opulenti e sordi alle esigenze degli altri, ma che sgocciola anche nelle regioni povere attraverso un raffinato congegno ridistributivo. Zugo e Zurigo aiutano Uri e Ticino sulla base di un federalismo cooperativo o solidale. Tale trasferimento di risorse non si traduce tuttavia in assistenzialismo o in donazione: chi riceve deve dimostrare che i fondi vadano a buon fine (vale quindi il principio di responsabilità). Finché reggerà questo meccanismo – sostengono i materialisti – la Confederazione rimarrà in piedi, superando screzi e dissapori.
Gli idealisti insistono invece sull’impulso volitivo, sulla volontà di formare una nazione unita oltre le differenze. Volontà che si nutre di libertà, autonomia delle singole parti rispetto al tutto, collaborazione nei momenti difficili, difesa comune, adesione ai riti del patriottismo (feste, manifestazioni sportive, inni). La laboriosità fa la sua parte, ma non basta: per fare una nazione occorre un corredo di simboli, una memoria collettiva coltivata dalla comunità, una cornice di princìpi spirituali condivisi.
Qual è l’elemento di maggior peso, il materialismo o l’idealismo? Sono entrambi vitali e indispensabili, rispondeva nel 1961 il professor Herbert Lüthy (storico di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita), autore di un saggio che allora suscitò un certo clamore: Die Schweiz als Antithese [La Svizzera come antitesi]. Materia (l’economia) e spirito (l’anima del popolo) non erano da considerarsi come elementi separati; al contrario, l’evoluzione storica dimostrava che materia e spirito si erano sempre variamente combinati e mutualmente rafforzati nell’esercizio della democrazia diretta, nell’architettura federalistica e nella valorizzazione delle autonomie cantonali. Lüthy portava a sostegno della sua tesi la ragnatela delle strade ferrate: «l’esempio più semplice è dato dalla rete ferroviaria, la più fitta del mondo, che – anche a prezzo di gravosi oneri e di alti costi d’esercizio – si è piegata alle rivendicazioni espresse dai più piccoli comuni e dalle più remote valli, anche quando urtava contro le leggi della redditività. [...]. Si paragoni questa rete con quella francese, dove tutto parte e finisce a Parigi con ammirevole geometrica regolarità e dove i buoni collegamenti con la capitale decretano la prosperità o il declino, la vita o la morte di intere regioni. Qui sta la differenza tra uno Stato centralistico e uno federalistico. E poi sovrapponiamo la carta ferroviaria a quella delle attività economiche e dei movimenti della popolazione. Questa disseminazione delle industrie su tutto il territorio fin nelle zone discoste, l’insediamento di aziende di rilevanza internazionale in cittadine rurali (sulle quali poggia la solidità e l’equilibrio dell’edificio sociale di questo paese, risparmiandogli le orrende concentrazioni industriali dell’Ottocento con i loro quartieri miserandi e il loro proletariato sradicato) stanno in stretto rapporto con il regime politico, con questa forza della democrazia locale, permettendo ai comuni e alle regioni di contrapporsi al disumano principio della razionalità economica». Questa la diagnosi di Herbert Lüthy, formulata quasi sessant’anni or sono.
Al lettore il compito di giudicare se in questo frangente storico stia prevalendo nel nostro paese l’elemento «materia» o l’elemento «spirito» nelle scelte politiche nazionali.