Bighellonando nei boschi ripidi delle Centovalli, il grande mitologo unghe-rese Karl Kerényi (1897-1973), è colpito da un’iscrizione di una cappella. Chi non era passato di lì, poteva ritrovarla trascritta il ventisei luglio 1958 tra le pagine della «Neue Zürcher Zeitung» o qualche anno dopo, leggendo Tessiner Schreibtisch (1963). Tre anni fa, una notte sul divano con La Madonna ungherese di Verdasio (1996) – raccolta di quattro saggi di Kerényi tradotti dal tedesco da Anna Ruchat e dissepolta in una incasinata libreria locarnese di seconda mano scomparsa – la incontro. Accompagnato da queste parole: «Tra le case di pietra mezzo cadenti e le stalle che appartengono al villaggio di Verdasio situato su un’altura, di punto in bianco mi trovai di fronte una Madonna col bambino sotto la quale potei leggere le belle vecchie lettere: vero ritrato del imagine miracolosa di paez del regno di vngaria la qvale lanno 1696 nel mese di novembre lacrimo piv volte sangue edt aqva».
Di colpo, nello spirito di Kerényi, attraverso il paesaggio, le Centovalli si collegano all’Ungheria. Madonna d’Ungheria, così, del resto, gli abitanti di Verdasio conoscono da sempre quella Madonna che lacrima sangue. Salgo sulla centovallina a Locarno. In una chiesetta buia di Buda, illuminata solo dai cerini, il sangue esce invece dalla fronte di un’immagine sacra che tutti nel quartiere chiamano Madonna dello Spazzacamino. Si tratta di una Madonna del Sangue portata nel 1694 da uno spazzacamino della Val Vigezzo. La continuazione italiana delle Centovalli dove a Re, a fine aprile 1494, un giovinastro scaglia un sasso contro la Madonna dipinta nel porticato della chiesa. Una Madonna del Latte, in poche ore, diventa la Madonna del Sangue all’origine dell’ultranoto santuario mariano di Re dove arrivano credenti da mezzo mondo. La fermata Verdasio ci sarebbe, eppure dopo aver studiato il percorso decido di scendere dopo e farmi un bel po’ di chilometri in più, a ritroso, nel bosco. Lungo l’antica mulatteria nota come Via del Mercato che collegava Domodossola a Locarno e viceversa. Perdipiù un pellegrinaggio implica sempre un po’ di sport. Scendo dunque a Camedo. Dove fuori dal ristorante Vittoria scovo le sedie-spaghetti, comodissime e ormai introvabili. Sul cammino, passando da Borgnone e gettando uno sguardo a Lionza, in un’ora abbondante di cammino a passo per niente distratto, incontro sette cappelle, due zucche monumentali, non so quanti ricci e castagne. Resti di mulini, diversi riali, commoventi muretti a secco, una pergola superstite di vite isabella abbandonata che ingiallisce noncu-rante nel sole di un caldo pomeriggio di quasi fine ottobre. E poi d’un tratto, sul sentiero che si è impennato di petto, lassù in curva, la Madonna ungherese di Verdasio (632 m). Qui a fianco, le case di pietra e le stalle cadono ancora a pezzi come all’epoca di Kerényi, verso la metà degli anni quaranta.
Una era di un bandito assassino, dicono, da un’altra si sente un contadino fischiettare Sul bel Danubio blu. Volta a botte, tetto a capanna in piode, colori vivi. Si vede che la cappelletta risalente al 1698 è stata restaurata non da molto. Blu capri e rosso mattone il vestito della Madonna, nuvole vinaccia in cielo e tra i due angioletti, un tocco di giallo senape. In grembo alla cappella c’è una fontana sorgiva. Lì sul muro è appesa un’immagine sacra sbiadita. A fianco sfiorite ortensie. Mi concentro sulle lacrime di sangue. Due putti tengono il cartiglio con l’iscrizione che spinge Kerényi a indagare un po’. Paez, così a naso lo indirizza a Pécs, nell’Ungheria meridionale, ma la pista da seguire per rintracciare il paese distorto in questa scritta sgrammaticata porta piuttosto a Pòcs: località oggi nota come Mariapòcs, nell’Ungheria nord-orientale, quasi al confine con la Romania. Dove il quattro novembre 1696 un dipinto di poco conto di un contadino incomin-cia a lacrimare. La Maria di Pòcs già l’anno dopo emigra nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna ed è nota oggi come Madonna di Pötsch. Se guardiamo la postura delle mani di quella Madonna ungherese di Vienna e la compariamo con questa qui davanti, è la stessa. Il resto è molto diverso. Se lì si va verso le icone bizantine, qui siamo nell’iconologia più lieta e barocca delle Madonne dipinte dai pittori ambulanti. Il sangue locale delle lacrime è invece un ricamo insubrico della storia derivato senz’altro da Re o Buda.
Ricapitolando, in breve, l’andirivieni: l’immagine della Madonna di Buda proviene, per mano di uno spazzacamino, da Re. Questa, per desiderio di un emigrante di Verdasio, è ispirata dalla Madonna di Pòcs poi storpiata in Pötsch che qui diventa infine Paez. E si trova a poco meno di tre ore di cammino da Re: sulla strada più breve che portava, a piedi, nella vecchia Europa. A pensarci, la fatica per salire su a Verdasio, da dove si apre paradisiaca una risolutoria vista da Palagnedra a Rasa – che spiega forse il toponimo iperbolico al plurale di questa valle per la quale trovo ora un legame –non è niente. Tra un orto e la chiesetta, mi strega un buffo mascherone di un palazzo con baffi da tricheco. Uno identico adorna l’entrata di una antica birreria nel porto di Rotterdam.