Geo III 47 Sess.1c.36: con questa sigla il 25 marzo 1807 venne messo agli atti del Parlamento Britannico il documento legislativo noto come «Slave Trade Act 1807» che aboliva la tratta degli schiavi in tutto l’impero britannico. L’Atto del Parlamento non avrebbe abolito la schiavitù in quanto tale, ma tanto nei suoi effetti immediati quanto nelle sue ripercussioni a livello globale rappresentava un primo passo per la presa di coscienza, se non la fine, di un fenomeno che ancor oggi conta fra i 21 ed i 46 milioni di persone in stato di schiavitù secondo la definizione ufficiale dell’ONU. Per quanto riguarda la mossa pionieristica dell’impero britannico la campagna abolizionista era cominciata vent’anni prima con la formazione di un comitato congiunto di membri della Chiesa Evangelica Inglese Protestante alleati a altri membri della comunità Quacchera – i Figli della Luce di tradizione calvinista radicale. Questi ultimi erano da sempre stati contrari alla pratica della schiavitù così come alle violenze nei confronti delle popolazioni colonizzate delle quali la riduzione in schiavitù era la manifestazione più scandalosa.
Negli anni a partire dal 1787, con la guida di William Wilberforce, gli abolizionisti guadagnarono posizioni su posizioni presso l’opinione pubblica, fino ad arrivare a contare fra i 35 ed i 40 seggi in Parlamento. L’abolizionismo di Wilberforce era parte non tanto – o non solo – di sdegno immorale contro l’ingiustizia della schiavitù (niente dunque di «rivoluzionario» nel senso «francese» del termine). Wilberforce infatti scriveva nel suo diario in data 28 ottobre 1787: «Dio Onnipotente mi ha affidato due grandi obiettivi: l’abolizione del commercio degli schiavi e la riforma dei costumi». Il passaggio parlamentare dell’Atto fu un percorso irto di difficoltà e rischi, ma anche aiutato da circostanze imprevedibili e coincidenze fortunate. Il governo del Primo Ministro Lord Grenville godeva di una maggioranza molto risicata in parlamento. L’ingresso di 100 parlamentari irlandesi in conseguenza dell’Atto di Unione che annetteva l’Irlanda al Regno Unito, aveva persuaso Lord Grenville, che, per sopravvivere, il suo governo doveva sposare la causa degli abolizionisti. Il voto in Parlamento si tenne il 23 febbraio. L’Atto passò con la schiacciante maggioranza di 283 voti contro 16. Firmato dal Sovrano divenne operativo il 25 marzo 1807.
La forza negoziale diplomatica del Regno Unito non poteva non avere un impatto a livello internazionale. In quelli che erano allora gli Stati Uniti il movimento contro la tratta degli schiavi aveva una lunga storia, ma la proibizione di abolire la tratta degli schiavi era stata astutamente iscritta nella Costituzione all’Articolo 1, Sezione 9, Clausola 1, laddove si sanciva che non si potesse proibire il commercio degli schiavi fino al 1808. Con l’avvicinarsi della data fatale, il movimento abolizionista crebbe al punto che l’Atto di Abolizione fu approvato un anno prima della «scadenza» il 2 marzo 1807 anche in vista del fatto che l’abolizione era già in dirittura d’arrivo anche nel Regno Unito. Messo bene in chiaro il fatto che entrambi gli atti non abolivano la schiavitù in quanto tale, ma solo la tratta atlantica (il commercio interno rimanendo pertanto legale), occorre a questo punto porsi una domanda con un pizzico di cinismo altropologico che certo verrà perdonato: perché abolire la tratta atlantica e non il mercato interno – e dunque la schiavitù in quanto tale? Ai primi dell’800 l’Inghilterra era ormai il Paese nel quale il lavoro salariato predominava su forme di reclutamento e controllo arcaiche come la servitù della gleba e la schiavitù stessa: l’indignazione morale andava così a braccetto con la crescita del PIL, per così dire.
Negli Stati Uniti la situazione era più complessa. Con la Rivoluzione degli Uomini Liberi contro il dominio Inglese era chiaro come il sole che posto per la schiavitù nella Terra di Quelli non poteva esserci. Però, però. L’assetto fondiario delle grandi piantagioni del Sud richiedeva la manodopera degli schiavi pena la sua stessa fine: la dilazione ventennale dell’abolizione della tratta atlantica iscritta nella stessa costituzione era stato un colpo d’avvertimento. Nei vent’anni precedenti l’abolizione l’importazione della merce «schiavo» negli States aveva raggiunto picchi massimi. Demograficamente parlando, nel 1807 c’erano negli Stati Uniti abbastanza schiavi da garantire la riproduzione della loro forza lavoro per gli anni a venire. La morale della favola l’avrebbe scritta da lì a qualche decennio quell’altro cinicone storico che fu un certo Marx, di nome Karl: la schiavitù non finì (solo) per le pie intenzioni di un pugno di moralisti. Finì, conti alla mano, quando ci si accorse che invece di nutrire, vestire e curare gli schiavi (e pagare le tasse per loro), conveniva dichiararli Uomini Liberi, dare loro un salario da fame – e che si arrangiassero pure.