La lingua in più: a che prezzo?

/ 07.02.2022
di Luciana Caglio

Si chiama «survival English» quel bagaglio di parole, ormai indispensabile nella professione, nel tempo libero, in viaggio, a ogni latitudine. È il nuovo latino, simbolo di un imperialismo che ha spostato l’epicentro: dal Mediterraneo all’Atlantico angloamericano. Volere o no, ne siamo diventati sudditi, e quindi alle prese con un idioma standard, a uso globale, accessibile grazie alle proposte di un enorme mercato ad hoc. Come dire, l’inglese, già di per sé linguaggio attuale, reso popolare da cantanti, attori, campioni sportivi, persino astronauti, insomma gente di successo, appare un obiettivo a portata di mano. Lo garantiscono scuole specializzate, corsi serali per giovani e anziani, vacanze linguistiche oltre Manica e oltre Oceano, DAD la didattica a distanza sperimentata con il covid, libri che propongono classici in versione facilitata e, non da ultimo, le lezioni private che riuniscono un piccolo gruppo di allievi intorno a un insegnante scelto liberamente, sulla scorta di eventuali raccomandazioni.

In proposito, sull’arco dei decenni, inseguendo l’esigenza-speranza di migliorare il mio «survival English», ho accumulato una singolare esperienza, come si suol dire, di varia umanità. Risale a oltre mezzo secolo fa, l’incontro con la mia prima maestra d’inglese: si chiamava Mrs Masotti, impersonava lo stereotipo britannico tradizionale, quando la «Swinging London» era di là da venire. Mi riceveva nella mansarda di un albergo, a Paradiso, dove campava in una dignitosa povertà, impartendo lezioni di un inglese in parte superato. Ricordo che la parola pregnancy, gravidanza, andava sostituita con delicate health. In seguito, è stata la volta di altre «miss», più aggiornate e guarda caso, ticinesi emigrate negli USA, dove si erano appassionate di Emily Dickinson e della scuola poetica del Massachusetts. E ci trasmisero il loro entusiasmo, durante le lezioni, che si tenevano nei locali della redazione di «Azione», nello storico edificio di via Bossi. Ultimo, nella lunga serie d’insegnanti, l’indimenticabile Norman Hewitt, l’ideatore delle stagioni luganesi di Blues to Bop. E fu lui a emanare, sia pure in tono scherzoso, un giudizio definitivo sul nostro «survival English»: «Il vero inglese è un’altra cosa. Una questione anche fonetica, e per chi non è nato sulla sponda nord della Manica, una questione di talento».

Ora, ho ritrovato questo termine in un servizio, pubblicato il 30 gennaio scorso, dal domenicale della NZZ, con un titolo esplicito: «Non dipende dal maestro». Secondo i dati raccolti da ricercatori dell’università di Friborgo, a determinare successo o insuccesso nell’apprendimento di una lingua è «un dono», una predisposizione naturale, una sensibilità alle parole in quanto suoni. Certo, ai buoni risultati scolastici, in generale, contribuiscono l’ambiente familiare e sociale, i libri a disposizione, il sostegno dei genitori. Con ciò, nei confronti di un idioma straniero, interviene l’incognita di una capacità istintiva, persino irrazionale. Ripescando nel serbatoio dei ricordi, ritrovo la tipica figura del poliglotta spontaneo nel fotografo Valdemar Salomon, che lavorò per questo settimanale, negli anni 70/80. Non era bravissimo con la Leika ma imbattibile come poliglotta. Nato in Danimarca, cresciuto a Roma, nell’ambiente diplomatico, trasferitosi con la famiglia a Lugano, parlava scorrevolmente, con l’accento giusto, i più disparati idiomi, dialetti compresi. Dopo poche settimane, imitava alla perfezione l’accento dei nostri poliziotti.

Con ciò, il plurilinguismo, invidiata prerogativa elvetica, sta subendo i contraccolpi dell’inglese che la fa da padrone nell’ambito finanziario e influisce sulle scelte degli scolari, a danno del francese. Lingua, quest’ultima, che in Ticino, durante l’era fascista, assunse connotati politici: la francofilia come simbolo di libertà. Alla stessa stregua, oltre Gottardo, lo Schwyzerdütsch s’impose come segno distintivo rispetto alla Germania nazista. Oggi, in una Svizzera babele, risuonano gli idiomi più inattesi e indecifrabili. Le autorità sono corse ai ripari: dal 2006, la Costituzione federale sancisce l’obbligo di abbinare l’insegnamento di una lingua straniera a quello di una lingua nazionale. E c’è perfino chi rilancia la proposta del dialetto a scuola: lingua, a sua volta, straniera per molti giovani ticinesi.