Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo(at)azione.ch


La libertà, un’esigenza che permea tutta la vita

/ 28.11.2022
di Silvia Vegetti Finzi

Cara Silvia,
le scrivo di getto perché ieri sera mia nipote Clara, 32 anni, single, una posizione invidiabile in una grande azienda internazionale e una carriera promettente, mi ha comunicato di aver rassegnato le dimissioni. Ma perché buttare a mare un presente e un futuro garantiti? Che cosa la spinge a essere precaria mentre io e mio marito (siamo gli zii) abbiamo avuto il privilegio di restare per trent’anni nella stessa banca dove ci siamo conosciuti e abbiamo trovato gli amici di una vita? Si dice che i giovani stanno male, che siano scoraggiati e depressi, ma a me sembra che se lo vadano a cercare. Ci aiuti, la prego, a capire che cosa sta succedendo. Grazie. /
Carlotta

Cara Carlotta,
alla sua domanda non è facile rispondere e ci stanno provando tutti coloro (psicologi, sociologi, economisti) che si occupano di lavoro. Per le generazioni precedenti, soprattutto per le donne, il lavoro retribuito (quello domestico non è mai mancato) ha rappresentato una conquista sociale che ha mutato il modo di pensare sé stesse, il rapporto con gli altri, lo stare al mondo. Ma ora le cose sono cambiate, le donne cresciute in famiglie che hanno garantito loro il benessere e la sicurezza non cercano semplicemente un lavoro, ma un’attività che faccia star bene, che dia senso e valore alle loro giornate. Se il futuro è incerto, che senso ha, si chiedono, trascorrere le giornate in un luogo dove non si è persone ma numeri?

Preso atto di questo malessere generazionale, le ditte più avanzate si stanno impegnando a cambiare l’atmosfera dei luoghi di lavoro e offrire ai dipendenti una situazione di appartenenza, di fiducia e di benessere dove ognuno, responsabile di quello che fa, può scegliere i tempi e i modi per eseguire i compiti che gli competono. Per loro il valore supremo è la libertà, un’esigenza che permea tutta la vita. Non a caso Clara non si è sposata, non ha figli, non si sente legata a un luogo, a una comunità. Dagli anni 70, la cultura dei diritti ha premuto l’acceleratore sulla libertà, sull’autodeterminazione, declinate soprattutto in modo negativo: no al matrimonio combinato, no alla famiglia indissolubile, no alle nascite indesiderate, no alla sterilità involontaria e, più recentemente, no a un’identità sessuale fissa e predeterminata, no a una morte incontrollata. Negazioni che hanno aspetti positivi ma che lasciano gli individui soli di fronte a scelte difficili che preferiscono evitare con un’esistenza mobile, fluida, leggera, che non contempla decisioni irreversibili. Viene a proposito la lettera di Valentina, mamma di Bianca, di 38 anni, che scrive:

Cara dottoressa, mia figlia, ormai giunta all’ultima chiamata della maternità, di avere un figlio non si sogna neanche. Non so quanti «fidanzati» si sono succeduti nella sua vita, quante case ha cambiato, quanti viaggi ha intrapreso mollando tutto e tutti. Ma poi? Che vita è questa? Che futuro l’aspetta? Mentre io vorrei essere nonna di tanti nipotini, riunirci a Natale intorno a una grande tavola imbandita, scambiarci i doni, sentirci uniti e solidali.

Cara Valentina,
la situazione di Bianca assomiglia, da un altro versante, a quella di Clara. Entrambe sono segno dei tempi. Tempi fissati al presente, dove non c’è né passato né futuro, dove la mobilità rivela il rifiuto di attendere, di sbagliare e di ricominciare. Piuttosto che rischiare la fine di un amore, sempre dolorosa, si preferisce passare dall’uno all’altro partner in una catena interminabile d’indifferenti separazioni. A chi fugge sembra meglio rinunciare alla felicità piuttosto che affrontare l’infelicità che ogni passione può comportare. Noi delle generazioni precedenti facciamo fatica a comprendere e giustificare un’esigenza di libertà che si configura come una perdita di stabilità, di progettazione, di costruzione del futuro. Nel 1992, un’era geologica fa, avevo intitolato un libro sulla psicologia della vita Il romanzo della famiglia. Passioni e ragioni del vivere insieme. Ora poche esistenze prendono la forma del romanzo, la maggior parte si limita a racconti telegrafici, rapide battute sui social, risposte con emoticon e sintetici like. Forse, in tempi così precari dovremmo, come suggeriva Borges, costruire sulla sabbia come se fosse roccia.