La libertà in due parole

/ 27.11.2017
di Maria Bettetini

«Signor esattore, mi trovo nell’impossibilità di pagare le imposte». La missiva, vergata a penna, è indirizzata al Sig. Esattore di Roma, la firma è G. Garibaldi, la data un 26 di maggio, di un anno probabilmente successivo al 1871, quando Roma divenne capitale d’Italia anche per merito, indiretto, di Giuseppe Garibaldi. In verità Garibaldi aveva tentato almeno tre volte di rendere Roma all’Italia, e una di queste fu anche ferito, sull’Aspromonte (non solo «a una gamba» come canta la marcetta dei bersaglieri, bensì a due).

«O Roma o morte!», pare abbia detto a Catania prima di tentare l’avventura romana nel 1862. Ancora oggi le innumerevoli statue che lo ritraggono nelle piazze d’Italia hanno tutte lo sguardo volto alla capitale, che per Garibaldi rimase un sogno: quando infatti nel 1870 Roma fu finalmente presa dall’esercito italiano attraverso la breccia di porta Pia, si dovette strapparla alle truppe francesi che la difendevano. Ma proprio quell’anno Garibaldi era andato a combattere a fianco della Francia nella guerra franco-prussiana, non poteva certo lasciare gli alleati per andare a combatterli a Roma. Un intricato conflitto di interessi, tipico un po’ di tutto il Risorgimento, per non dire dell’umanità intera che volentieri cambia alleati e difensori appena intravvede un vantaggio. Comunque, nel 1874 Garibaldi non solo può godere dell’unità d’Italia e di Roma capitale, ma diventa addirittura deputato del Regno. Dobbiamo pensare di questo periodo la sua lettera al signor Esattore, perché abbiamo un altro segnale dell’indigenza dell’Eroe dei Due Mondi: nel dicembre del 1874 viene proposto per lui un vitalizio, approvato nel maggio successivo. Inizialmente Garibaldi lo rifiuta, ma poi nel 1876 accetta le 50’000 lire di pensione, che probabilmente gli servono anche per le cure mediche (è ormai in sedia a rotelle, morirà nel 1882 prima di compiere i 75 anni).

Tuttavia la causa dell’interesse per le due righe scritte a un astratto «Esattore» non è tanto nella curiosità, pur vera, che suscita la dichiarazione di non poter assolvere un dovere verso lo Stato che si è contribuito a unificare e, in fondo, a creare. È piuttosto la sicurezza con cui ciò viene affermato, senza che si ritenga opportuna alcuna motivazione, senza cercare scusanti, senza la minima traccia di contrizione o dispiacere. Garibaldi sa di avere fatto molto per l’Italia: ebbene, l’Italia lo deve prendere così com’è. L’uomo di mare non conosce formalità e belle maniere, la guerra e le tante prigionie, insieme alle turbolente vicende sentimentali e famigliari, fanno di lui un uomo che esercita la parresia senza remore. Ma non intesa, come si diceva nella scorsa postilla, quando così si definiva anche l’esondare dei discorsi privati sui social media, l’eccesso di confidenze gettate in pasto a chiunque, la perdita di ogni rispetto per se stessi. No, la libertà di parola di Garibaldi assomiglia piuttosto a quella di Socrate, che nulla ferma dal dire quello che pensa, anche se ai più sembrerà sconveniente e fuori luogo, come sembra sconveniente che un patriota non paghi le tasse solo perché «impossibilitato».

Socrate nel primo libro della Repubblica discute con alcuni amici di differenti età. Dopo aver vagliato i vantaggi (molti) e gli svantaggi (pochi) della vecchiaia, il discorso cade sulla definizione di giustizia, perché l’anziano Cefalo afferma che col passare degli anni si ha sempre più presente l’aldilà, dove saremo chiamati a rendere conto delle ingiustizie commesse.

Vuole intervenire il giovane Trasimaco, lo fanno tacere per poter ascoltare Socrate, ma questi esplode: «Che chiacchiere sono queste che andate facendo da un pezzo, Socrate, e cosa dite scemenze facendovi ridicolmente delle concessioni l’un l’altro?» Il ragazzo non sopporta che si discuta chiarendosi l’uno con l’altro il concetto di giustizia e propone con maleducazione il suo: «il giusto non è altro che l’utile del superiore». Socrate non si scandalizza né si adira, chiede compassione per la sua ignoranza e lumi a Trasimaco. Che da parte sua si spiega dando a Socrate dell’ingenuissimo, del disgustoso, del sicofante. E Socrate ancora: «Persuadici dunque davvero, uomo fortunato, che la nostra valutazione è erronea, se stimiamo la giustizia più dell’ingiustizia». Trasimaco aggredisce, tenta rozzamente di spiegarsi. Ma rimane spiazzato dalla tranquilla fermezza del filosofo, che non grida e non arretra, sicuro di dove sta conducendo il discorso. Molti vorrebbero avere questa stessa libertà, vorrebbero sembrare impavidi propalatori di scomode verità. Per questo gridano, insultano, litigano. Si querelano. Quando a Socrate bastava un’educata domanda, per mettere in crisi l’arroganza di Trasimaco, quando a Garibaldi bastavano due educate righe a un Esattore sconosciuto per raccontare la sua vicenda umana.