La libertà d’espressione ferita

/ 22.08.2022
di Peter Schiesser

Alla notizia dell’accoltellamento di Salman Rushdie, è riaffiorato immediatamente un ricordo: era il 1988, in viaggio in India stavo leggendo un’intervista allo scrittore indiano, alla domanda se non temesse di ferire la sensibilità religiosa dei musulmani con il suo nuovo libro I versi satanici, Rushdie rispose risolutamente di no; era convinto che alla fine del Ventesimo secolo il mondo si fosse laicizzato a sufficienza. Si era sbagliato, il riflesso oscurantista dell’islamismo era ancora forte, anche nella sua India, con la sua costituzione laica – e lo sarebbe diventato ancora di più nei decenni a venire in tutto il mondo. Fu il governo indiano retto da Rajiv Gandhi, figlio di Indira e della dinastia padrona del Partito del Congresso di impronta laica e progressista, il primo a vietare la pubblicazione del libro. I musulmani di Bombay avevano protestato contro il libro, e Rajiv Gandhi aveva bisogno del sostegno dei deputati musulmani in parlamento per sopravvivere politicamente, per cui nella migliore tradizione della Realpolitik vietò I versi satanici. Immediatamente seguì il Pakistan: se la vicina e nemica, laica India vieta un libro per supposta offesa al profeta Maometto, cosa deve fare uno Stato sorto dalla separazione dell’India con l’ambizione di essere il paese dei puri per i musulmani? Il 14 febbraio del 1989 poi, la fatwa, la condanna a morte per apostasia decretata dall’ayatollah iraniano Khomeiny, che costrinse Salman Rushdie a vivere sotto falso nome e protetto dalla polizia per 12 anni (un’esperienza che ha condensato nel suo libro Joseph Anton, lo pseudonimo che inventò assemblando i nomi dei suoi due autori preferiti, Joseph Conrad e Anton Checov).

Eppure sono convinto che nessuno dei milioni di musulmani e altri detrattori ha mai letto il suo libro. L’ho letto due volte – forse con spirito troppo laico? – e non ho trovato passaggi offensivi sul Profeta. Oggi me lo conferma Hamed Abdel-Samad, scrittore e politologo egiziano in un articolo sulla «Neue Zürcher Zeitung» (15.8.’22). Vi si trova invece un imam a Parigi dipinto come un angelo nero, che è l’esatta caricatura di Khomeiny – ma questo dev’essere sfuggito ai censori. Tuttavia, al reale può sostituirsi una realtà alternativa, al vero il credibile benché falso (a dimostrazione che le fake news e la manipolazione per scopi politici non sono nate oggi), ciò che a Salman Rushdie è costato per anni il rischio di essere ucciso e ora ferite che cambieranno la sua vita, oltre il ferimento, allora, del suo traduttore italiano, la morte di quello giapponese e altre vittime in Corea.

Ma non si tratta solo di Salman Rushdie, con lui è stata accoltellata e ferita la libertà d’espressione artistica. In primo luogo dal fanatismo religioso musulmano. L’aggressore, il 24enne Hadi Matar, è l’espressione anche solo inconscia di una bigotteria che non è capace di confrontarsi con idee diverse, con la critica ai propri valori e all’interpretazione corrente dell’Islam. Come scrive l’islamologo e psicologo Ahmed Mansour a proposito degli islamisti (sempre sulla Nzz, 16.8.’22), «la religione è come un burka che copre le loro debolezze e conferisce un’identità collettiva che li delimita dagli altri». Ne abbiamo fatto esperienza in più occasioni negli ultimi dieci anni, dalla strage nella redazione di «Charlie Hebdo» a Parigi all’uccisione del vignettista danese che offese il Profeta, senza dimenticare gli attentati di al Qaeda e dell’Isis, ancora più devastanti e sanguinosi. Ma la reazione di parte dell’élite intellettuale occidentale è stata ambigua: di fronte alla montante islamofobia, molti hanno sì condannato la violenza, ma nel discorso pubblico si è lentamente insinuata la tesi che la libertà di parola è certo da difendere, ma non al prezzo di offendere le sensibilità altrui (in questo caso dei musulmani). Con tanti saluti alla libertà artistica di mettere in discussione ogni verità rivelata.

Il mondo è davvero molto cambiato, negli ultimi 34 anni. Mentre sui canali social vengono propagandati messaggi di odio e disprezzo, nel dibattito intellettuale ufficiale la critica a un’etnia o a una religione suscita in molti una reazione di censura in nome di un anti-razzismo ideale. Criticare la bigotteria viene considerato un atto razzista, non illuminista. Questa non è libertà artistica, né di parola. E tradisce i valori di cui ci si continua a vantare.