È stata proprio, come dice il titolo di un brano musicale pop, una «maledetta domenica», quella del 3 luglio scorso. Segnata da due eventi, entrambi tragici ma non paragonabili, anzi simbolicamente diversi.
Più vicino a noi, anche per affinità ambientale, il crollo del ghiacciaio della Marmolada, con un numero ancora imprecisato di vittime. Mentre a Copenaghen, in un affollato supermercato, un terrorista spara sulla gente, provocando morti e feriti. Ora, da questa casuale concomitanza fra i due incidenti si può, anzi si deve ricavare una materia di riflessione quanto mai attuale. Concerne, appunto il nostro atteggiamento fisico e mentale, persino morale, nei confronti di una quotidianità in incessante cambiamento che, con la tecnologia, i viaggi, lo sport allarga i confini delle nostre attività e, inevitabilmente, il fronte dei pericoli. Il caso Marmolada ne è un esempio rivelatore. Un tempo, apparteneva a una categoria di imprese riservate agli esperti, persone fisicamente e moralmente attrezzate. Complice il turismo di massa, si è aperto il filone, commercialmente redditizio, degli svaghi-sfida, con cui mettersi in gioco esplorando fondali marini, o attraversando l’Atlantico con il catamarano, lanciandosi nello spazio agganciati al parapendio, scivolando sulle acque infide di torrenti, di montagna praticando il rafting. Gli sfizi, insomma, di un’avventura da brivido, ormai a portata di mano. Che va di moda.
Niente di tutto ciò, ovviamente, nell’episodio di Copenaghen. Qui, nessuna possibile divagazione colpevolizzante a carico delle vittime. La banalità del luogo e della situazione evidenzia, invece, le insidie della quotidianità. E fino a ieri, quotidianità era sinonimo di normalità, una condizione di vita stabile, in una Svizzera che, della sicurezza aveva fatto il suo emblema. Come detto, fino a ieri. E cioè prima della pandemia e poi della guerra che hanno sconvolto l’immagine e i contenuti di un privilegiato isolamento. Per i cittadini della Confederazione si è aperta un’esperienza di vita che chiede un faticoso riadattamento. Per dirla con Roman Bucheli, scrittore, giornalista, che ha alle spalle peripezie personali movimentate, «La normalità non è normale». Non è soltanto un’efficace battuta giornalistica. Come spiega, si tratta di un’esigenza inderogabile. Il virtuoso conformismo allo status quo non ha più corso. Ci si deve arrendere all’evidenza. Il benessere individuale, associato a quello pubblico, è un meccanismo che non funziona più automaticamente. La perdita, ancora parziale, delle proprie libertà, imposta dal Covid e adesso dalle ricadute finanziare ed energetiche del conflitto, comporta una capacità di adattamento che ci era estranea. Anche la fiducia nell’establishment traballa. A Berna, come a Bellinzona, e non da ultimo nei consigli comunali, i politici sono sotto tiro. Incapaci di prendere le decisioni giuste per affrontare l’emergenza: da considerare, insomma colpevoli, i capri espiatori di disagi che, invece, vanno condivisi. Si tratta di un impegno civico e civile che spetta all’intera collettività. All’insegna dalla disponibilità alla rinuncia che, forse, non sarà transitoria. Qual è la conversione che, secondo Bucheli, e con lui altri pensatori sul piano internazionale, implica la capacità di tenere il passo con «una nuova normalità».
Per il momento, il discorso può sembrare ispirato alla fantascienza o fantapolitica che sia. Il «piove governo ladro» continua a ispirare i comportamenti di cittadini che, in piena contraddizione, deplorano le malefatte dei governanti e, in pari tempo, ne chiedono la protezione. Avviene, in forma plateale, in Italia. Ma non mancano gli esempi a casa nostra. Con effetti persino esilaranti. Del tipo, il cittadino che protesta perché i fuochi d’artificio, in occasione del raduno motociclistico Harley, hanno spaventato il suo cagnolino. E le autorità avrebbero dovuto prevenire l’incidente.